di Brunetto Salvarani (docente di Teologia della Missione e del Dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna)
La scomparsa, il 12 novembre scorso, di Abd al Wahid Pallavicini, una figura che ha segnato di sé la storia, complessa, del dialogo cristiano-islamico nel nostro Paese.
Immancabile la sua presenza ai momenti di dialogo più ufficiali, ma anche – soprattutto in passato – a quelli più informali. Durante i quali mostrava, quando interveniva direttamente con il suo tono convinto e la sua passione per la verità, tutta la sua profonda convinzione, da un lato, che al dialogare non si possa in alcun modo rinunciare; e, dall’altro, che l’islam, come l’ha conosciuto e vissuto in prima persona lui, non c’entra nulla con la tragica follia del terrorismo jihadista. Aveva il coraggio di confrontarsi non solo con le autorità del cattolicesimo, ma anche con i vertici dell’ebraismo. Non è facile parlare di lui al passato, tanto lo shaykh Abd al Wahid Pallavicini – morto lo scorso 12 novembre all’età di 91 anni – ha segnato di sé la storia, complessa, del dialogo cristiano-islamico nel nostro Paese.
Discendente di un’antica famiglia lombarda che vanta papi e cardinali, Pallavicini, laureato in medicina, si era convertito all’islam nel lontano 1951, mentre si spegneva al Cairo il metafisico francese René Guénon, al cui pensiero rimarrà costantemente legato. Negli anni Ottanta ha l’intuizione di fondare, in Italia e in Francia, una comunità di musulmani autoctoni, ricollegata al sufismo tradizionale. Al suo impegno, in particolare, si deve la nascita della COREIS – Comunità Religiosa Islamica Italiana, dell’Interreligious Studies Academy (Accademia ISA) e della moschea al-Wahid di Milano, sita in via Giuseppe Meda. Già nel 1998 presenta al parlamento italiano una prima bozza d’Intesa tra la comunità islamica e lo Stato; fra l’altro, viene scelto a rappresentare l’islam italiano nello storico incontro di Assisi del 27 ottobre 1986, voluto da Giovanni Paolo II.
Se il suo testo più significativo resta il fondamentale L’islam interiore (edizione più recente Il Saggiatore, Milano 2003), nel suo ultimo libro, Il nome di Dio nell’Islam (Edizioni Messaggero, Padova, 2016), egli ha lasciato quello che non poteva non risultare un autentico testamento spirituale: “Ai nostri discepoli chiediamo di tenersi saldi nei principi della fede senza scendere a compromessi con le crescenti suggestioni di questo mondo; alle autorità spirituali chiediamo invece di tenere fede allo spirito di fratellanza che abbiamo condiviso nel corso di più di quarant’anni di dialogo, con particolare attenzione a un sempre più necessario affinamento intellettuale e a un discernimento sui segni dei tempi, mentre alle autorità civili chiediamo di sostenere anche fattivamente una realtà spirituale eccezionale nel suo genere, dalla quale possono dipendere non pochi delicati equilibri nei rapporti fra Oriente e Occidente, equilibri che potrebbero divenire ancora più importanti nel corso dei prossimi anni”. La sua corposa eredità prosegue ora nell’opera del figlio, Yahya, pure convintamente coinvolto da diversi anni nel dialogo e nella riflessione sull’islam spirituale.