di Ludovico Basili (Istituto Ecoambientale)
Poche le buone notizie che provengono dalla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta nella città tedesca. Le emissioni globali di CO2 continuano a crescere in modo preoccupante e nessuna decisione davvero risolutiva è stata presa. Ma il tempo stringe.
Dal 6 al 17 novembre 2017 si è tenuta a Bonn la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la Cop23 presieduta per la prima volta da una piccola nazione, le isole Fiji, ma ospitata dalla Germania per motivi logistici e solidali. La conferenza non era iniziata nel modo migliore per via dell’opposizione di Stati Uniti, Canada, Australia e Unione europea alla richiesta di effettuare una valutazione su cosa si sta facendo per l’attuazione dell’accordo della Cop21 di Parigi che entrerà in vigore nel 2020. Ma dalla sua firma le Ong di tutto il mondo hanno sottolineato l’importanza di non aspettare questo termine per adottare politiche di salvaguardia del clima. La situazione è così compromessa che, se si dovesse aspettare il 2020 per agire, potrebbe essere troppo tardi per raggiungere gli obiettivi fissati nella capitale francese.
A Bonn, nel corso della Conferenza è stato presentato il rapporto “Global Carbon Budget 2017” pubblicato su Environmental Research Letters, secondo cui, dopo tre anni di relativa stabilità, nel 2017 le emissioni globali di CO2 da combustibili fossili potrebbero nuovamente salire: +2% a fine anno (con un ampio margine di incertezza tra +0,8 e +3,0%): «Ciò è molto deludente. Con le emissioni globali di CO2 delle attività antropiche stimate a 41 miliardi di tonnellate per il 2017, si sta esaurendo il tempo per contenere il riscaldamento della Terra ben al di sotto di 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, cosi come previsto dall’Accordo di Parigi 2015». Se questo dato fosse confermato, l’agognato “picco delle emissioni” a livello mondiale non sarebbe ancora stato raggiunto. Il ritorno alla crescita delle emissioni globali nel 2017 è in gran parte dovuto a una ripresa delle emissioni cinesi (+3,5% stimato a fine anno).
Questa inversione di trend è attribuibile a un aumento del 3% dell’uso di carbone, sulla spinta di un’accelerazione della produzione industriale ma anche di una minore produzione di energia idroelettrica. La diminuzione di quest’ultima costituisce un elemento cruciale, come è stato osservato anche in Italia negli ultimi anni, proprio perché gli effetti del cambiamento climatico riducono la portata dei bacini. Il Global Carbon Budget 2017 evidenzia anche che sebbene «la green economy sia in pieno boom in Cina come altrove, la crescita della domanda di energia viene soddisfatta anche con nuove infrastrutture di petrolio, carbone e gas».
Il prevedibile aumento delle emissioni mondiali di CO2 del 2017, che segue un triennio di sostanziale stabilità, suona come campanello d’allarme, con un messaggio molto chiaro per tutti i Governi impegnati nella Cop23: per attuare l’Accordo di Parigi e riuscire a contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2° C, è quanto mai urgente rivedere gli impegni nazionali a oggi sottoscritti aumentandone il livello di ambizione e rendendoli più incisivi e cogenti.
Lo scenario che abbiamo di fronte non è dei migliori, tanto che alla fine della Conferenza il commento più ricorrente è stato «non si è deciso nulla e intanto le emissioni crescono e il tempo per fermare l’aumento della temperatura si esaurisce». Impossibile affermare il contrario.
Ma non tutto è stato negativo, alcuni punti positivi emergono dalle giornate di Bonn.
- Si afferma come centrale il nodo dei finanziamenti ai paesi più poveri e più minacciati dagli effetti del cambiamento climatico. Se ne discute dalla Conferenza di Copenaghen del 2009, la Cop del grande fallimento, quando l’unico impegno sottoscritto furono i cento miliardi di dollari all’anno che entro il 2020 i paesi ricchi avrebbero dovuto dare ai paesi “poveri”. La notizia è che i “poveri”, stanchi di aspettare, non accettano di contabilizzare come finanziamenti quelli che in realtà sono dei prestiti (un giochetto che consente all’Ocse di contabilizzare oltre cento miliardi di dollari, quelli che secondo Oxfam e le stime più affidabili sono al massimo la metà). Le nazioni destinatarie intendono che la maggior parte di questi soldi venga destinata all’adattamento, cioè alla difesa dai disastri che i cambiamenti climatici causano con frequenza impressionante e non solo alla mitigazione certo necessaria, ma che si rivela un affare per i paesi ricchi, perché possono investire per favorire una economia verde spacciando questi interventi come aiuto quando il rischio è essere sommersi dall’innalzamento del livello del mare negli oceani, per fare solo un esempio.
- La posizione dell’amministrazione Trump, dopo l’annuncio dell’uscita dall’Accordo della Cop Parigi sul clima e l’attacco alle «teorie complottiste» del cambiamento climatico, è rimasta sostanzialmente isolata, mentre i rappresentanti di alcuni importanti Stati americani, in particolare quello di New York e della California (responsabile da sola nel 2015 dell’emissione di 440 MtCO2eq, un dato paragonabile a quello italiano che la farebbe rientrare tra i primi venti Paesi emettitori al mondo) si sono mostrati molto attivi e intenzionati a proseguire nell’impegno. La presidenza Trump non riesce a cambiare i fondamentali dell’economia sulle questioni energetiche visto che non è riuscita a bloccare la scelta dell’amministrazione Obama per cui oltre la metà delle centrali a carbone esistenti negli Usa nel 2010 sono già chiuse o hanno annunciato l’imminente chiusura.
- Il “Piano di azione per la parità di genere” che valorizza il ruolo delle donne nell’azione per il clima e promuove l’uguaglianza di genere nel negoziato, e la piattaforma delle comunità locali e dei popoli indigeni, che mira a sostenere lo scambio di esperienze delle pratiche migliori in materia di mitigazione e adattamento.
- L’Ocean Pathway Partnership, che mira a rafforzare l’inclusione degli oceani all’interno del negoziato.
Altri aspetti rilevanti si sono manifestati a latere della Conferenza. Nel giorno di apertura della Cop alcuni tra i più importanti gruppi europei operanti nel settore dell’energia, tra cui l’italiana Enel, hanno presentato una dichiarazione per chiedere all’Unione europea di alzare le ambizioni sulle fonti rinnovabili, portando il target 2030 dal 27% al 35% del consumo finale lordo. A questa si è aggiunta la presentazione dell’iniziativa The Global Alliance to Power Past Coal, un’alleanza internazionale di Governi e autorità locali (ma che coinvolge anche il mondo delle imprese) – di cui fa parte anche l’Italia, insieme a Francia e Regno Unito, ma senza la Germania – che si sono impegnati a intraprendere una exit strategy dal carbone per la produzione di energia elettrica, la prima fonte al mondo nella generazione di elettricità.
Da registrare, come ha sottolineato Maria Grazia Midulla, responsabile clima del Wwf Italia, il protagonismo (che ha definito «eclatante») della società civile sulle delegazioni ufficiali fino al punto che, per la prima volta, il cuore della Conferenza non sono stati i negoziati ma ciò che avveniva nella Bonn Zone.
Per concludere c’è da segnalare un’iniziativa, che si è tenuta il 12 dicembre a Parigi, a due anni dalla Cop21, promossa tramite un appello che tra i primi 150 firmatari vede Romano Prodi, Dany Cohn Bendit. Jeffrey Sacha e Tim Jackson della commissione Stern-Stiglitz. L’appello, scritto dal climatologo Jean Jozuel e dall’economista Pierre Larrouturou, chiede ai responsabili politici europei di riorientare la politica monetaria Ue per finanziare la transizione energetica con mille miliardi di euro e si basa su due punti: mettere la creazione monetaria al servizio della lotta contro i cambiamenti climatici e la lotta contro il dumping fiscale europeo creando un contributo clima del 5%. Si attendono buone nuove.
(pubblicato su Confronti di gennaio 2018)