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Gerusalemme: la diplomazia miope di Trump

by redazione

di Mostafa El Ayoubi (caporedattore di Confronti)

L’Onu boccia la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. Ma nulla cambia

«Un atto di vandalismo diplomatico». Così il Financial Times ha definito la decisione del presidente degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. La mossa di Trump è stata criticata da gran parte dei media mainstream, che hanno fatto eco alla reazione di presa di distanza da parte della comunità internazionale: governi, istituzioni e società civile.

Trump ha di fatto attuato un provvedimento già votato dal Congresso nel 1995, ma che nessun presidente statunitense aveva mai osato finora applicare perché la questione di Gerusalemme è molto complessa, per motivi storici, religiosi e politici. Essa costituisce la pietra d’inciampo per il perenne processo di pace tra israeliani e palestinesi, in cui l’amministrazione Usa ha sempre svolto il ruolo di mediatore politico, anche se non sempre in modo imparziale: in varie occasioni si è opposta con il veto alle risoluzioni Onu che condannavano Israele per la violazione dei diritti dei palestinesi. E il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è di per sé una violazione della risoluzione 242, che considera Gerusalemme est come territorio palestinese occupato.

Con questa mossa di Trump gli Usa, di fatto, diventano “parte integrante” del conflitto israelo-palestinese. In effetti il presidente ad interim dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha dichiarato che Washington ha perso il suo ruolo di facilitatore del dialogo tra le controparti.

La decisione di Trump non è una semplice “idiozia”, come si potrebbe pensare, ma segue due logiche. La prima, interna, riguarda il rafforzamento del suo potere “domestico”, mantenendo le promesse fatte a quella parte del suo elettorato influente della lobby ebraica e di quella cristiana pentecostale, sperando in un loro ulteriore sostegno per affrontare la campagna di delegittimazione politica per vari scandali, o presunti tali.

La seconda logica è esterna e fa riferimento al quadro geopolitico internazionale e a quello specifico del Medio Oriente. La grave crisi del mondo arabo avviatasi tra fine 2010 e inizio 2011 con la famigerata “primavera araba”, che ha portato alla destabilizzazione di diversi Paesi della regione, sarebbe dovuta essere l’occasione per rimodellare il Medio Oriente (come ipotizzava Condoleezza Rice, ex segretario di Stato all’epoca di George W. Bush) e consentire agli Usa di dominare completamente l’intera regione. Ma i principali ostacoli erano l’Iraq e la Siria; e in parte anche il Libano. Questi Paesi hanno sconfitto Daesh dopo anni di guerra con il sostegno dell’Iran e della Russia. E questi due ultimi sono diventati oggi l’ago della bilancia nel Medio Oriente. Ciò ha indebolito la storica influenza degli Usa nella regione.

Se la prima logica potrebbe rallentare la pressione interna su Trump – il Wall Street Journal gli ha dato ragione sulla questione di Gerusalemme – la seconda invece si sta rivelando insensata. Spostare la propria ambasciata a Gerusalemme, il nucleo politico del Medio Oriente, è un tentativo maldestro per raddrizzare una situazione compromessa per gli Usa. Non sono riusciti a cambiare il regime di Damasco e hanno ormai poca influenza sull’Iraq. Hanno ulteriormente peggiorato i rapporti con la Turchia la quale sembra ormai orientata a far parte dell’asse russo-iraniano, che è già una vera e propria “gatta da pelare” per Washington.

L’Iran è considerato dagli israeliani e dai sauditi – impegnati nella costruzione di un’alleanza strategica in funzione anti-iraniana – una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Israele da tempo incita il suo grande alleato, gli Usa, a fare la guerra all’Iran. Non perché l’Iran rappresenti una minaccia nucleare per Israele, come viene spesso dichiarato, ma perché l’Iran si sta trasformando in una grande potenza regionale, specie ora che ha vinto la guerra in Siria. Ciò sta modificando sensibilmente i rapporti di forza a sfavore di Israele, che finora ha sempre dettato le regole del gioco.

La questione palestinese è sempre stata al centro della politica estera di Teheran: Khomeyni nel 1979 consegnò ad Arafat la chiave degli uffici dell’ambasciata israeliana a Teheran e istituì la Giornata di al Quds (“Gerusalemme”, in arabo). Oggi il timore di Israele è che l’Iran possa influenzare il processo di pace a suo sfavore. Se Trump pensava che con la sua mossa su Gerusalemme avrebbe trascinato Teheran in un conflitto armato, allora è stato mal consigliato sull’abilità politica dei persiani. La sua mossa rafforza la popolarità dell’Iran e rischia di mettere Israele in una non invidiabile situazione di isolamento regionale.

(pubblicato su Confronti di gennaio 2018)

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