di Simone Uggeri (laureando in Human Security presso Aarhus University – Danimarca)
Assistiamo oggi a un inconsapevole trasferimento di potere dagli uomini alle macchine. L’industria dei dati – Apple, Samsung, Amazon, Google, Facebook… – è sempre più potente e influisce di fatto negli equilibri internazionali. La delicata questione del diritto all’oblio in internet.
La parola “datacrazia”, cioè il governo dei dati, è stata coniata dal sociologo della cultura digitale Derrick de Kerckhove, che lavora a Toronto (Canada). Questa definizione individua la natura del potere nella raccolta di massa di tutti i nostri dati digitali, i quali possono conferire ai “gestori”, ovvero coloro che li archiviano e custodiscono, facoltà uguali o addirittura superiori agli stati.
È storicamente noto come i gruppi di pressione possono influenzare il funzionamento di sistemi sociali complessi: ne sono un esempio la famiglia Medici nel Granducato di Toscana (1434-1737), la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (1602-1800) o le Sette Sorelle negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (1945-1973). Ad oggi, tra i diversi lobbisti, il gruppo in ascesa è senza dubbio quello dell’industria dei dati, composto da Apple Inc., Samsung Electronics, Amazon.com, Alphabet Inc. (Google), Foxconn, Facebook, Microsoft e diverse altre: il fatturato del settore digitale ha ormai superato di diversi miliardi di dollari quello dell’oro nero, protagonista politico e commerciale del secolo scorso.
Se è chiaro, o quantomeno intuibile, che diversi conflitti degli ultimi trent’anni siano avvenuti a causa di equilibri geopolitici instabili, spesso legati ad interessi energetici (soprattutto petroliferi), è necessario oggi interrogarsi sugli effetti della possibile ingerenza dell’industria dei dati nell’equilibrio internazionale. In che modo la nostra vita potrebbe cambiare, a causa di questo fenomeno sociale, politico e commerciale?
La rete: uno “svago” serissimo
Prima di tutto c’è da interrogarsi su cosa sia già cambiato, dalla fine del XX secolo ad oggi. Senza dubbio la “quarta rivoluzione industriale”, così coniata dagli enti McKinsey, Boston Consulting e da Osservatori del Politecnico di Milano, ci ha catapultato in un nuovo spazio sociale: internet. Se inizialmente la rete era considerata uno svago, ora è al centro del commercio internazionale, delle interazioni tra persone e persino tra conflitti bellici, tanto che la Nato ha riconosciuto il “cyberspazio” come “dominio operativo”. Gradualmente, i computer sono diventati sempre più piccoli e leggeri, fino a mutare forma e divenire smartphones, non più di quindici anni fa. È interessante notare come più i dispositivi sono diventati multifunzionali, più l’industria digitale è cresciuta, e non certo per il solo merito di aver venduto diverse unità di prodotti hardware.
Il software è il vero punto di forza del settore informatico, in particolare quello che permette la raccolta dei dati su grande scala. Queste informazioni raccolte si chiamano Big Data, cioè dati personali che vengono automaticamente analizzati, ordinati e processati da complessi algoritmi elaborati dalle aziende digitali. I Big Data permettono di identificare la tipologia di utente (noi!) in base ai dati che l’utente stesso ha fornito a diversi servizi online, che vanno dalla ricerca generica su Google, al cliccare “mi piace” su un post di Facebook, al visualizzare un articolo su Amazon (anche senza acquistarlo) e all’utilizzo di applicazioni gratuite su smartphones, come ad esempio Angry Birds, un gioco molto popolare.
Tutto questo, dal punto di vista delle aziende di moltissimi settori commerciali, è molto positivo perché, ad esempio, aiuta a concentrare la produzione materiale in quantità precisa per il numero esatto di clienti pronti ad acquistare il prodotto, senza sprecare risorse preziose come il capitale umano o l’energia. È anche utile ai clienti perché i loro acquisti saranno maggiormente influenzati dalle pubblicità che vedono online, poiché basate dall’elaborazione dei Big Data in precedenza forniti alle aziende, che – e questo è importante – commerciano questi dati tra di loro.
Questa evoluzione tecnologica ha anche dei lati negativi. Prima di tutto, questi processi commerciali sono in larga parte ignoti alla società di massa, poiché il livello di conoscenza di questi meccanismi richiede una padronanza tecnica avanzata. Il fatto che non si conoscano le conseguenze delle proprie azioni in rete comporta uno squilibrio smisurato a sfavore degli utenti. Un esempio calzante è ciò che sta accadendo nel mercato dei mutui o delle assicurazioni: le aziende acquistano pacchetti di Big Data per verificare le attività in rete dei richiedenti servizio; questo significa che, ad esempio, un comportamento sociale deviante assunto in giovane età e pubblicato su un social network potrebbe inficiare la possibilità che una persona ottenga un mutuo o un contratto di assicurazione, secondo le policy aziendali. In questo caso le persone più colpite sono i nativi digitali, quindi ragazzi giovani molto attivi in rete sin dalla prima adolescenza.
Il diritto all’oblio
Si apre quindi un tema oggi centrale anche dal punto di vista dei diritti umani: il cosiddetto “diritto all’oblio”, definito come «il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata» (Ambrosoli, Sideri, Diritto all’oblio). La raccolta indiscriminata di Big Data condanna un numero indefinito di persone a perdere improvvisamente questo diritto, salvo che esse si tutelino tecnicamente a difesa dei propri interessi, scegliendo di utilizzare vie alternative che però si rivelano essere ormai non comuni, rimanendo al di fuori di logiche sociali ormai ampiamente radicate, soprattutto tra i giovani (per esempio la scelta di non utilizzare una app di messaggistica popolare per la tutela dei propri diritti).
In merito a ciò, in Italia, recentemente, si è legiferato per estendere la Data Retention, cioè la “Conservazione dei Dati”; nello specifico, si fa riferimento alle chiamate telefoniche effettuate e ricevute e ai metadati raccolti da governi e organizzazioni commerciali. Delle chiamate telefoniche vengono registrati i dettagli tecnici, come la data, l’ora e il luogo ma non i contenuti della chiamata; dei metadati si raccolgono i dettagli delle e-mail inviate e ricevute e dei siti web visitati, come la data, l’ora e il luogo di consultazione. La nuova legge prevede l’estensione dei periodi di conservazione previsti dal “Codice in materia di protezione dei dati personali” da 24 a 72 mesi per il traffico telefonico, da 12 a 72 mesi per i metadati e da 6 a 72 mesi per le chiamate senza risposta.
Questa estensione è stata pesantemente criticata dalle associazioni in difesa dei diritti digitali e dal Garante della privacy, soprattutto perché essa nasce nel contesto del contrasto al terrorismo, un provvedimento che sarebbe poi impopolare modificare, poiché abbassare la soglia di sicurezza nazionale è troppo rischioso per ogni governante: basta un attentato terroristico per essere additati come responsabili di negligenza politica, perdendo consensi. Un altro preoccupante caso si è verificato in Cina, dove il Partito comunista ha deciso di introdurre dal 2020 un sistema di credito sociale basato sulla qualità individuale: il governo attiverà un sistema di rating per classificare il valore di ogni singolo individuo in base a diversi fattori sociali, tra cui il traffico dell’attività in rete.
Se utilizzare una tecnologia efficiente e confortevole significa essere vittime di un sistema software che limita la propria libertà e compromette la libertà degli altri… allora questa efficienza e questo comfort sono forse un po’ troppo costosi.
(pubblicato su Confronti di gennaio 2018)
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