di Maurizio Simoncelli (vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio disarmo – Iriad)
In questo momento, nel mondo, sono in corso fra i trenta e i cinquanta conflitti. La difficoltà nel determinare una cifra esatta è dovuta alle diverse valutazioni su cosa possa essere considerato guerra in senso proprio e cosa “conflitto minore”. Il ruolo chiave dell’export di armi.
Quante sono le guerre nel mondo? Alcuni dicono trenta, altri cinquanta, papa Bergoglio parla di «guerra mondiale a pezzi». La risposta precisa in realtà non è facile. Innanzitutto ci si deve intendere sul termine “guerra”. Gli specialisti dicono che possono essere considerati “guerra” i conflitti armati con più di 1.000 morti all’anno, ma certamente una situazione di violenza che abbia generato 800 o 900 morti non è trascurabile. Possiamo quindi più correttamente parlare di crisi di varia intensità, dalla guerra propriamente intesa a conflitti minori che comunque rendono instabile un Paese o una regione. Nel senso stretto del termine potrebbero calcolarsi intorno a trenta, ma in una valutazione più ampia si può parlare di cinquanta. Dall’Ucraina alla Libia, dalla Siria alle Filippine, dall’Afghanistan allo Yemen, dal Myanmar al Kenya, guerre, guerriglie e attentati terroristici seminano morti, feriti e distruzione.
Le cause di questa conflittualità diffusa sono molteplici, connesse ad interessi geopolitici, economici, strategici in un mondo globalizzato e contemporaneamente instabile, in cui gli equilibri stanno radicalmente cambiando nell’ambito di un quadro ormai multipolare.
IL COMMERCIO DI ARMI
Mezzo necessario, ma a volte anche causa del conflitto, sono le armi e le munizioni, fondamentali queste ultime per far funzionare le prime. Esse sono in dotazione alle forze armate statali, a quelle irregolari, alla criminalità più o meno organizzata. Le analisi dell’istituto svedese
Sipri valutano il commercio internazionale dei maggiori sistemi d’arma (mezzi corazzati, aerei, navi, artiglieria ecc.) nel 2016 intorno ai 31 miliardi di dollari, mentre le stime dello Small Arms Survey di Ginevra relative alle armi piccole e leggere (pistole, fucili, mitra, mitragliatrici, lanciarazzi, bombe a mano ecc.) parlano di un giro di affari di 8 miliardi tra armi e munizioni. Queste cifre sono probabilmente inferiori a quelle reali, dato che molte transazioni nell’ambito dei cosiddetti mercati grigio (forniture non ufficiali tollerate o avallate dai governi) o nero (totalmente illegali) sfuggono al computo.
Il conflitto siriano è esemplare in tal senso: ufficialmente la Russia sostiene militarmente il regime di Assad, mentre non si conosce con esattezza chi rifornisce da anni l’opposizione politica e le forze islamiste radicali (Isis ed altri). Inoltre le forniture di armi e munizioni a forze irregolari di varia ispirazione (dai curdi a gruppi di miliziani di vario riferimento islamico radicale) attivate negli ultimi anni per contrastare l’espansione dell’Isis o l’azione delle forze armate di Damasco comportano molti rischi in quanto i destinatari non garantiscono che esse poi non vadano altrove, contribuendo a destabilizzare ulteriormente un quadro critico come quello mediorientale.
Non è raro inoltre che forze ribelli, terroristi o delinquenti comuni abbiano assaltato depositi e arsenali, rifornendosi per le loro attività. Infine sono stati segnalati anche casi di militari che hanno rivenduto quanto loro affidato. Gli arsenali delle forze armate libiche dopo la caduta del regime di Gheddafi sono stati saccheggiati e in parte sono finiti nel Mali o in Siria.
Se moltissime sono le aziende che nel mondo producono vari tipi di armi, in realtà i big del settore sono una decina, e detengono quasi il 90% del mercato mondiale.
E interessante notare che tra i principali acquirenti di armi troviamo prevalentemente paesi dell’area asiatica, i due big cinese e indiano e paesi mediorientali. Nel Medio Oriente, area tradizionalmente “calda” e con forti movimenti di popolazione connessi ai conflitti (si parla di milioni di profughi solo nei casi siriano e yemenita), risulta che l’importazione di armamenti sia cresciuta dell’86% tra il 2007-11 e il 2012-16. In particolare vi si è indirizzato il 29% dell’export mondiale nel periodo 2012-16. E dai dati disponibili si nota che relativamente a quello dell’Unione europea sia addirittura il 32% nel 2014. Forniamo armi e munizioni per guerre che generano morte e masse di profughi che in parte si dirigono proprio verso il Vecchio Continente, mettendo poi palesemente in crisi il processo unitario europeo. Le forniture di armi europee al Medio Oriente (presentate ufficialmente come contributi alla sicurezza internazionale) rappresentano poi, per cosi dire, un vero e proprio autogol contro il progetto comunitario.
IL CASO AFRICANO
Non può non preoccupare, oltre a tutto questo, la presenza di aziende medio-piccole, a volte di tipo artigianale, che producono armi piccole e leggere, diffuse in particolare nel continente africano, caso esemplare. Qui vengono registrati nel 2016 ben 19 conflitti armati rilevanti. Basta pensare che nella Repubblica Democratica del Congo sono stati rilevati nel solo 2017 oltre 900 episodi di conflitto e di manifestazioni di protesta violenta. Oxfam ha calcolato che ogni anno 18 miliardi di dollari vanno perduti in Africa a causa dei conflitti. In Ghana, dal 2005, gli armaioli locali hanno la capacita di produrre oltre 200.000 armi all’anno, tra cui pistole, pistole a canna singola e doppia, fucili tradizionali e fucili a pompa. Più del 60% delle armi illegali nella Nigeria sudorientale è fatto localmente. In Mali, le armi fatte localmente sono diffuse e usate per commettere crimini. Peraltro, a parte il Sudafrica, l’Egitto e il Sudan, gli stati africani sono limitati nella loro capacita industriale di produrre armi e munizioni. Ciò implica che la maggior parte delle armi in Africa, sia legali sia illecite, proviene per il 95% dall’esterno del continente.
Circa 25 stati africani stanno combattendo una o più forme di insicurezza, come la ribellione organizzata o la guerra civile, il crimine organizzato, l’estremismo violento, la militanza etno-politica, le agitazioni secessioniste ecc. E la diffusione più o meno incontrollata delle armi contribuisce a tali fenomeni.
LE NORME DI CONTROLLO SULL’EXPORT DI ARMI
A livello internazionale sono state attivate nel corso degli ultimi anni delle normative tese a cercare di uniformare i criteri commerciali in questo specifico settore. In particolare, grazie anche alla disponibilità dell’amministrazione Obama e all’impegno crescente della società civile, si è giunti all’Arms Trade Treaty (“Trattato sul commercio delle armi”), approvato in Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2013 ed entrato in vigore nel dicembre 2014. Esso costituisce storicamente un primo, importante passo in questo settore, pur rimanendo ancora inadeguato sia normativamente (trasparenza insufficiente, assenza di sanzioni ecc.) sia per la non ratifica da parte dei maggiori produttori mondiali (Usa, Russia e Cina). Va ricordato che nel 1990 l’Italia – prima a livello mondiale – si era già dotata di una buona legge, la 185, che vieta l’export di armi a paesi in guerra, con regimi dittatoriali e dove non esiste rispetto dei diritti umani. Tale legge è stata modello di riferimento per le successive norme comunitarie quali il Codice di condotta (Data), seguito nel 2007-2008 dalla Posizione comune e poi dalla Direttiva europea.
La 185/90 prevede anche un regime sanzionatorio per le aziende che esportano senza autorizzazione, ma non per autorizzazioni concesse dal Governo senza ottemperare al dettato legislativo. Cosi negli anni si è assistito ad una serie di esportazioni “disinvolte”: verso il regime di Gheddafi (salvo poi scoprirne il carattere dittatoriale per attaccarlo militarmente), verso forze armate che utilizzano bambini soldato (Afghanistan e Somalia, ripetutamente segnalati in tal senso dall’Onu), verso paesi in guerra (bombe d’aereo Rwm all’Arabia Saudita, aerei Eurofighter al Kuwait – ambedue impegnati nel conflitto yemenita). Per cui si assiste a livello nazionale ed anche internazionale a dichiarazioni altisonanti sull’impegno per la pace, assolutamente contraddittorie con la concreta azione politica dei governi.
(pubblicato su Confronti di febbraio 2018)