di Fabrizio Petri (ministro plenipotenziario Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, presidente Cidu – Comitato interministeriale per i diritti umani)
Parlare di diritti umani oggi richiede più che mai saper coniugare pazienza a visione. A fronte dello straordinario quadro normativo che si è venuto creando a seguito dell’impulso post-seconda guerra mondiale, ancora oggi – a settant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani – c’è ancora molto da fare.
Parlare di diritti umani oggi richiede più che mai saper coniugare pazienza a visione. Certamente, ed a partire soprattutto dalla Seconda guerra mondiale, sono stati fatti importantissimi passi in avanti. La Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata il 10 dicembre 1948 e di cui quest’anno si celebra il settantesimo anniversario, è un documento straordinario – forse uno dei più belli mai scritti – e dall’altissimo valore morale, sebbene non vincolante sul piano giuridico. Per tale ragione, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, sono stati negoziati una serie di trattati internazionali che, sottoscritti e ratificati fra gli anni settanta e ottanta da quasi tutti i paesi del mondo, hanno creato un sistema internazionale vincolante che accomuna la Comunità internazionale nell’attuazione dei principi della Dichiarazione universale.
Sette sono, in particolare, i trattati più importanti (rispettivamente: sui diritti civili e politici, su quelli economici e sociali, contro la discriminazione razziale, contro la discriminazione verso le donne, contro la tortura, sull’infanzia e sulle persone con disabilità) che regolamentano tutti i principali aspetti del vivere e dell’agire umano, le nostre libertà e le tutele contro i soprusi. È importante qui ricordare le due idee di libertà care al filosofo liberale Isaiah Berlin, quella positiva (libertà di fare) e quella negativa (spazio di libertà dai soprusi): l’insieme del sistema dei diritti umani mira proprio a garantire il necessario equilibrio tra libertà positiva e libertà negativa. Un equilibrio complesso anche perché di carattere evolutivo: i diritti umani sono infatti un percorso per definizione senza fine. E proprio per monitorare ed aggiornare l’applicazione nel tempo dei diritti umani, è stato creato un sistema presso le Nazioni Unite composto di comitati e di esperti indipendenti, in uno sforzo collettivo impensabile fino a pochi decenni fa e profondamente innovativo. Inoltre, più di recente, con gli obiettivi di Sviluppo sostenibile 2030 adottati nel 2016, per la prima volta i tre pilastri delle Nazioni Unite – pace e sicurezza, sviluppo socio-economico e diritti umani – sono stati considerati in maniera integrata ed olistica, nella consapevolezza che non possono esserci pace e sviluppo senza diritti umani e viceversa. Nella consapevolezza, soprattutto, che se non si affrontano alla radice le cause delle diseguaglianze e delle discriminazioni non potranno essere create le condizioni per una pace duratura. Per questo il motto degli Obiettivi 2030 delle Nazioni Unite è “Nessuno deve essere lasciato indietro”. Forse davvero, come sosteneva un altro importante filosofo, l’argentino Eduardo Rabossi, siamo entrati nell’era della cultura dei diritti umani.
Tra lacune e arretramenti
Tutto bene, allora, per i diritti umani nel settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani? Purtroppo no, purtroppo non tutto va per il verso giusto. A fronte dello straordinario quadro normativo che si è venuto creando – delineato solamente per sommi capi – a seguito dell’impulso post-seconda guerra mondiale, e delle attese che l’idea stessa di diritti umani continua a suscitare nell’opinione pubblica mondiale più avvertita, l’applicazione dei diritti umani rimane lacunosa e molto variegata a seconda delle aree geografiche e dei differenti paesi. Inoltre molte delle conquiste degli ultimi decenni sono oggi viepiù rimesse in discussione e minacciate da dolorosi arretramenti anche, purtroppo, in paesi dalla forte tradizione democratica. D’altra parte alcuni gravissimi fatti, in particolare genocidi come quello del Ruanda, hanno scosso profondamente l’opinione pubblica mondiale. Sul fondo rimane poi irrisolto il problema del rapporto tra il valore universale dei diritti umani e le tradizioni e culture locali, mentre molto forti sono i dubbi che comportamenti violenti ed aggressivi di entità non statali – a cominciare dai gruppi terroristici – fanno planare sulla reale possibilità di godimento dei diritti umani nel mondo contemporaneo. Dubbi accresciuti, naturalmente, dalle crescenti diseguaglianze e dalle ineludibili problematiche ambientali già citate.
La sottrazione agli abusi di potere
Per cercare allora di comprendere in che direzione il percorso dei diritti umani potrebbe evolversi affinché possa rispondere alle sfide odierne potrebbe essere utile guardare a quella che, a mio parere, è la vera chiave di volta morale dei diritti umani: la sottrazione dell’individuo dagli abusi di potere. Se si pensa che solo a partire dall’Illuminismo si è cominciato ad abolire la tortura – fino ad allora praticata da tutti i tribunali del mondo – si può cominciare a rendersi conto di quanta strada si è fatta. Sappiamo che è stato grazie ad un italiano, Cesare Beccaria, che questo percorso ha acquistato una forza globale. Ma sappiamo bene che è un percorso ancora in mezzo al guado, ed è per questo che il nostro Paese, con la moratoria contro la pena di morte che ogni anno ripropone alle Nazioni Unite, sta continuando con coraggio a mantenere viva una eredità davvero fondamentale.
D’altra parte, sempre in un’ottica di sottrazione dell’individuo dagli abusi di potere, la comunità internazionale ha concepito l’idea innovativa – che nel 1993 è stata fatta propria dalle Nazioni Unite con i cosiddetti “Principi di Parigi” – di creare delle Istituzioni nazionali indipendenti sui diritti umani che possano, in un dialogo critico con i governi ed i parlamenti, rendere proprio il più vicino possibile alla gente il valore ed il percorso dei diritti umani. L’Italia – fra i pochi grandi paesi e democrazie avanzate ancora a non essersene dotata – ha preso tre anni orsono con le Nazioni Unite (nel quadro del processo di Revisione Periodica Universale) l’impegno a dotarsi di tale strumento. Ed è anche grazie al lavoro di tali organismi – e della rete che hanno creato a livello globale – se temi fondamentali come la libertà di coscienza e di espressione, la libertà di credo, la tutela delle minoranze – a cominciare da quelle religiose – continuano ad essere dibattuti, aggiornati, e l’attenzione su di essi mantenuta viva, nel quadro del percorso globale dei diritti umani.
Economia e diritti umani
Sempre seguendo il filo conduttore della sottrazione dell’individuo dagli abusi di potere, si può anche comprendere appieno l’importanza di un nuovo settore che sta acquistando sempre più importanza: economia e diritti umani. I già accennati Obiettivi di sviluppo sostenibile – la cosiddetta Agenda 2030 – sono il più chiaro segnale in tale direzione, giacché affrontano in maniera integrata lo sviluppo socio-economico ed i diritti umani. Essi inoltre spingono nella direzione di un sempre più forte coinvolgimento del mondo economico, e dunque anche dei privati, nel percorso dei diritti umani. Una direzione su cui le Nazioni Unite hanno già cominciato ad operare, lanciando nel 2000 il “Global Compact” – alleanza fra settore privato e istituzioni onusiane – e poi soprattutto varando, nel 2011, le famose “Linee Guida su Impresa e Diritti Umani”. L’Italia, grazie al lavoro del Comitato interministeriale per i diritti umani (Cidu), è tra i primi Paesi ad essersi dotata – sin dal 2016 – di un Piano d’azione nazionale su impresa e diritti Umani come auspicato dalle Nazioni Unite.
Si tratta di un Piano molto articolato che sta riscontrando un crescente successo in tutti gli ambienti interessati, da quello imprenditoriale a quello accademico, dalla società civile al mondo sindacale. Partendo dal solco aperto dalla Responsabilità sociale dell’impresa, l’approccio che unisce impresa a diritti umani mira a favorire quel salto di qualità, innanzitutto culturale, che possa portare il settore economico ad adottare comportamenti imprenditoriali che, pur salvaguardano in pieno la libertà d’impresa, la sappiano coniugare con una visione etica in cui l’essere umano – sia nella sua dimensione individuale che sociale – sia sottratto ad ogni possibile forma di abuso e possa invece, al pari dell’ambiente in cui viviamo, essere salvaguardato nella sua dignità ed integrità.
Ed avendo citato proprio il lavoro del Comitato interministeriale per i Diritti Umani, vorrei concludere questo intervento ricordando che quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario di questa Istituzione. Il Cidu fu infatti creato nel 1978 allorquando l’Italia ratificò la Convenzione sui diritti civili e politici. Il Cidu – quale punto riferimento italiano del sistema globale dei Diritti umani, sia delle Nazioni Unite che delle Organizzazioni regionali come il Consiglio d’Europa o l’Osce, oltre che, naturalmente, l’Unione Europea – svolge il suo lavoro di monitoraggio dell’applicazione da parte dell’Italia dei trattati sui diritti umani con un pieno coinvolgimento della società civile e mirando sempre a favorire – innanzitutto collaborando con il mondo accademico – la necessaria azione di promozione dei diritti umani nel nostro Paese.
(pubblicato su Confronti di maggio 2018)