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Le responsabilità dello scontro in atto

by redazione

di Luigi Sandri (redazione Confronti)

Chi è responsabile della tragedia in atto a Gaza? Opposte sono le attribuzioni delle responsabilità di quanto accaduto. Il premier Benjamin Netanyahu ha scandito: «Ogni paese ha l’obbligo di difendere il suo territorio. L’organizzazione terroristica Hamas vuole distruggere Israele e ha inviato a questo scopo migliaia di persone a forzare il confine. Israele continuerà ad agire con decisione per impedirlo». Insomma – questa l’accusa – il movimento di resistenza islamico avrebbe organizzato nella Striscia la marcia di migliaia di palestinesi per portarli a superare le barriere di protezione del confine; del resto, hanno sottolineato le autorità israeliane, cinquanta delle sessantatré vittime sono state riconosciute dallo stesso Hamas come aderenti al movimento. Ma il presidente palestinese, Abu Mazen (Mahmud Abbas), pur spesso in rotta con Hamas, ha respinto questa tesi, e definito un “massacro” quello compiuto dalle forze israeliane il 14 e 15 maggio: sessantatré morti, otto dei quali minorenni, e duemilasettecento feriti.
I commenti dal mondo
Grande e variegata, nel mondo, l’eco di quegli eventi – che arrivavano dopo i morti nelle marce dei venerdì a partire dal 30 marzo. La Casa bianca ha difeso a spada tratta le ragioni di Israele. Invece il presidente turco Recep Tayyip Erdogan lo ha accusato di “genocidio” (accusa subito respinta al mittente, ricordando che il leader di Ankara nega il “genocidio” degli armeni compiuto a partire dal 1915 dai turco-ottomani in Anatolia); e poi ha ordinato l’espulsione dalla Turchia dell’ambasciatore d’Israele, e questo a sua volta ha espulso l’ambasciatore turco. Quindi il presidente ha convocato a Istanbul l’Organizzazione della cooperazione islamica – che raccoglie cinquantasette paesi – il cui segretario generale, Yousef al-Othaimeen, ha accusato Israele di aver commesso “crimini di guerra e contro l’umanità”. E il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha sollecitato il mondo islamico a vigilare perché altri paesi, dopo Guatemala e Paraguay, seguano gli Usa nel trasferire l’ambasciata.
Convocati al Cairo il 16 maggio per un vertice di emergenza, i ministri degli esteri dei paesi della Lega araba – ha spiegato il suo segretario, Ahmed Abul Gheit – hanno invocato l’istituzione di «una autorevole inchiesta internazionale sui crimini commessi da Israele». E ha aggiunto: «Stiamo affrontando un evidente attacco contro il Diritto internazionale messo in questione dal trasferimento dell’ambasciata statunitense nella Gerusalemme occupata».
In merito ai vari eventi, il ministro degli esteri iraniano, Mohammed Javad Zarif, ha definito l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme un «giorno di grande vergogna». E il Sudafrica, per protestare contro «l’ultimo atto di aggressione violenta» compiuto da Israele nella striscia di Gaza, ha richiamato in patria il suo ambasciatore a Tel Aviv, Sisa Ngombane.
Federica Mogherini, alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, ha chiesto a Israele di «rispettare il principio di proporzionalità nell’uso della forza, e di rispettare il diritto dei palestinesi a protestare pacificamente»; ma, ha aggiunto, anche Hamas deve far sì che le manifestazioni siano pacifiche e «non deve sfruttarle per altri scopi». Da Londra il governo di Theresa May ha ribadito il suo disaccordo con Trump per il trasferimento dell’ambasciata e riaffermato il proprio impegno per la Two State solution (Israele e Palestina).

La posizione dell’onu
E l’Onu? Il suo segretario generale, Antonio Guterres, si è detto preoccupato per «l’alto numero di persone uccise» a Gaza. Ed ha aggiunto: «Non c’è nessun piano B alla soluzione dei due Stati che permetta a israeliani e palestinesi di vivere in pace». Infine, la questione è arrivata a Ginevra, al Consiglio per i diritti umani che, il 18 maggio, ha approvato una risoluzione – con ventinove sì, due no (Stati Uniti ed Australia), e quattordici astensioni – che condanna «l’uso sproporzionato e indiscriminato della forza da parte delle Forze israeliane contro civili palestinesi». Replica di Netanyahu: «L’organizzazione che chiama se stessa Consiglio per i diritti umani ha mostrato ancora una volta di essere un corpo ipocrita e fazioso il cui scopo è danneggiare Israele e sostenere il terrore».
Interessante è l’analisi del voto dei paesi europei presenti tra i quarantacinque del Consiglio (l’Italia non ne fa parte): hanno votato “sì” Belgio, Slovenia e Spagna; astenute Croazia, Germania, Slovacchia, Svizzera, Ucraina e Ungheria. Dunque, anche paesi della Ue hanno votato in ordine sparso su di un tema importante di politica internazionale.

È ancora possibile l’ipotesi “A”?
L’Onu, con Guterres, l’Unione europea con Mogherini – più esponenti religiosi, iniziando da papa Francesco – in questa e in altre occasioni hanno ribadito la Two state solution: accanto ad Israele, garantito, va creato lo stato di Palestina – formato da Cisgiordania, striscia di Gaza e con Gerusalemme-est come capitale – egualmente garantito. Ma, oggi, è possibile questa ipotesi A? In teoria, certo che sì; ma in concreto? In Cisgiordania, costruiti a pelle di leopardo, e collocati in punti strategici dal punto di visa militare, o là ove vi sono sorgenti acquifere – così sottratte ai palestinesi – e continuamente allargati in particolare sotto il governo Netanyahu (al potere dal 1996 al ’99, e dal 2009 ad oggi), gli insediamenti sono circa centocinquanta; poi, a Gerusalemmme-est sono stati costruiti impressionanti blocchi abitativi che Israele chiama “quartieri” e i palestinesi “insediamenti”. Nell’insieme, sui cinquecentomila abitanti/coloni.
Gli insediamenti – frutto di una politica furba e inarrestabile – secondo l’Onu sono “illegali”, perché costruiti in un Territorio “occupato”. In quanto a Gerusalemme: rimasta nel 1949 divisa in due al termine della prima guerra arabo-israeliana, con la parte ovest in mano ad Israele e quella Est alla Giordania, fu “unificata” da Israele che nel 1967, vincendo la guerra, la occupò; poi, nel 1980, la Knesset (parlamento) proclamò l’intera Gerusalemme capitale “eterna” e “indivisibile” d’Israele; ma i palestinesi rivendicano la parte Est come capitale del loro costituendo Stato. Anche per l’Onu lo status della Città santa deve essere definito con un accordo tra le parti, e non con atto unilaterale. Per tale motivo, le ambasciate di tutti i paesi (eccetto due latino-americani, che poi si adeguarono) furono da sempre a Tel Aviv, e non a Gerusalemme.
Il 23 ottobre 1995 il Congresso statunitense approvò il Jerusalem embassy act con il quale riconosceva la città “unificata” capitale d’Israele, e stabiliva dunque il trasferimento, là, dell’ambasciata. Tuttavia, consapevoli delle gravissime conseguenze di una scelta che cozzava frontalmente non solo con i paesi arabi, ma anche contro l’Onu, i successivi “inquilini” della Casa bianca differirono l’attuazione di quella decisione. Tutti, ma non Trump: il quale – con grande gioia, tra gli altri, dei “cristiani sionisti” che massicciamente lo hanno votato – il 6 dicembre 2017 ha annunciato il prossimo trasferimento dell’ambasciata: il che, con sapiente regia, è stato poi simbolicamente compiuto il 14 maggio 2018, nel giorno del settantesimo compleanno di Israele.
Quella lanciata da The Donald è una sfida all’Onu e al diritto internazionale, intrisa di una potenziale carica disgregatrice (e questo non è un pregiudizio. Del resto, se in altri campi, come la questione coreana, egli riuscirà a fare, e far fare, un passo verso una pace vera, noi lo loderemo. Tra l’altro: non fu un presidente democratico, ma un repubblicano – Richard Nixon – a mutare radicalmente le politica statunitense verso la Cina popolare, recandosi nel febbraio 1972 a Pechino). Ma è una sfida confusa: infatti, mentre annunciava lo spostamento dell’ambasciata nella “capitale d’Israele”, egli precisava di «non voler prendere posizione sullo status finale, ivi compresi i precisi confini della sovranità israeliana su Gerusalemme, una questione che doveva essere risolta dalle parti coinvolte». Quale il senso concreto di questi distinguo?
Abu Mazen oltre che contestare radicalmente – a ragione – la decisione di Trump, ha dichiarato di non considerarlo più un “arbitro”, essendosi egli schierato con uno dei contendenti. En passant, a proposito del rais, vogliamo però ricordare che, il 30 aprile scorso, a Ramallah, alla sessione del Consiglio nazionale palestinese, ha spiegato che la Shoah non fu causata dall’antisemitismo, ma dal “comportamento sociale” degli ebrei. Ma è mai possibile che, su problemi di tale gravità, la guida dei palestinesi si permetta tali intollerabili affermazioni?

Tra ipotesi e Realpolitik
Mettendo insieme tutti i tasselli, emerge la difficoltà estrema di far nascere uno Stato palestinese: del resto, partendo dalla logica implacabile del “Guai ai vinti!”, Netanyahu sembra mirare a concedere ai palestinesi, in Cisgiordania, otto-nove cantoni, separati gli uni dagli altri e immersi in territorio israeliano, che arriverà al Giordano: dunque, per ogni spostamento, sottoposti alla “buona volontà” di Israele. Così stando le cose, solo gli Usa, forse coadiuvati da una mediazione russa, potrebbero imporre lo smantellamento sostanziale degli insediamenti, presupposto per avviare una pace giusta. Certo, l’ideale sarebbe che la soluzione venisse dall’interno di Israele, con un radicale cambiamento culturale, e poi politico, della maggioranza della gente (e analogo, ovviamente, dall’altra parte). Esso dovrebbe portare al potere partiti convinti che una pace equa, benefica anche per il proprio paese, verrà solo da un compromesso, pur doloroso, con i palestinesi, che ponga fine al sogno del “Grande Israele” e accetti che l’altro stato nascente sia sovrano almeno sul 22% di quella che era la Palestina del Mandato britannico, al 78% in mano israeliana. La stessa logica di mediazione dovrebbe valere per affrontare tutti i punti-chiave del dissidio (profughi, status di Gerusalemme, divisione delle acque). Sappiamo, però, che quello descritto è, per ora, un miraggio (a fine maggio è stata approvata la costruzione di 2.500 nuove case in Cisgiordania). Perciò, stando alla Realpolitik, per risolvere il problema alla radice alcuni politici oltranzisti vorrebbero far “trasmigrare” tutta la popolazione della West Bank in Giordania; ma Netanyahu sa che una tale soluzione non sarebbe politicamente sostenibile di fronte al mondo.

L’ipotesi “B”, via verso la pace?
Dunque, il premier preferisce perpetuare lo status quo: una occupazione militare e coloniale che conceda alcune libertà, altre le neghi, e favorisca, o rifiuti, possibilità di sviluppo, ma il tutto a discrezionalità di Israele. Egli respinge anche l’ipotesi dell’annessione tout court della Cisgiordania a Israele, perché costosa poi da mantenere, e perché tali nuovi “cittadini”, con impetuosa crescita demografica, finirebbero per lacerare per sempre la “ebraicità” del paese.
Come sciogliere, allora, il rompicapo? Rari politici e alcuni intellettuali delle due parti fanno balenare l’ipotesi B: uno stato binazionale, formato dagli attuali Israele e Territori palestinesi, dove ciascuno si trova a casa sua, e tutti sono garantiti. Per quanto “insensata”, questa idea potrebbe diventare plausibile entro la fine del secolo, se ogni altra svanirà; ma, oggi, è respinta come uno scherzo blasfemo dai partiti che dominano la Knesset, da gran parte dell’opinione pubblica, dal rabbinato e dagli ultra-ortodossi. E con eguale impeto è respinta da Hamas e da al-Fatah, il partito di Abu Mazen.
Come se il nodo israelo-palestinese non fosse già abbastanza intricato, ad esso si aggiunge il problema Iran, che si riflette su Israele. Trump ha disdetto l’accordo multilaterale del 2015 – voluto anche da Obama – che garantiva a Teheran di poter avere energia nucleare a scopo civile, mentre impediva – accettando l’Iran rigidi controlli ad hoc – quella a scopo militare. Netanyahu, considerando il regime degli ayatollah il vero grande nemico di Israele che opera anche in Siria, ha esultato per la scelta di The Donald; ma la Ue difende quell’accordo, e il governo iraniano si tiene adesso le mani libere. Un puzzle rischiosissimo.
Dunque, tornando a Israele/Palestina, che fare in un tempo intermedio rispetto ad abbaglianti ipotesi sul futuro? In attesa della fantasia dei politici verso la pace, donne e uomini di pace, e anche di religione – ebrei, cristiani e musulmani – potrebbero aiutare i leader ad immaginare una Gerusalemme non esclusiva ma, giuridicamente, inclusiva, quasi una “città di Dio” o, laicamente, “città di tutti i popoli”. Ma, forse, anche questo è un sogno. E la “figlia di Gerusalemme” geme perché, simbolo di riscatto e redenzione per alcuni, per altri è generatrice di ingiustizie epocali. Ancora incompiuto rimane l’auspicio biblico: “Sia pace su Gerusalemme”.

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