di Leonardo Antonini (Relazioni internazionali, Facoltà di Scienze politiche, Università degli Studi di Perugia)
Che la Turchia di Erdoğan stia riscoprendo la passione per tutto ciò che è ottomano non è un segreto. Il revival imperiale e islamico, retaggio di un’epoca sovente idealizzata nella memoria storica e nel folklore popolare, sta investendo tutti i settori della vita pubblica turca, in linea con il riallineamento della politica estera di Ankara lungo direttrici generalmente definite neo-ottomane. L’identità islamica e i legami culturali, lascito dei sultani di Costantinopoli, sono lo strumento prediletto di proiezione internazionale di un governo fattosi artefice della resurrezione dell’Islam politico nella Turchia secolare di Kemal Atatürk. La diplomazia turca del terzo millennio mira al recupero dell’influenza politica ed economica sul Medio Oriente, i Balcani, l’Asia centrale, l’Africa; a tal fine, il “regime” dell’AKP ha asservito persino le soap opera di produzione autoctona – uno dei volani del’export made in Ankara, ora condite di nostalgia imperiale.
Capostipite di una prolifica generazione di sceneggiati turchi a tema ottomano fu la serie Muhteşem Yüzyıl («Il secolo magnifico»), produzione privata lanciata nel 2011 ed esportata trionfalmente in quattro continenti: avrebbe raggiunto, secondo le stime, ben duecento milioni di spettatori. Ispirata alla vita di Solimano il Magnifico, il sultano cinquecentesco sotto cui l’impero raggiunse il culmine dello splendore, la fiction si dipana in 139 episodi attraverso un labirinto di amori passionali, vendette familiari e lotte per la supremazia nell’harem sultaniale. Il cliché della sensualità orientale, preminente nella serie, attirò tuttavia il discredito delle frange conservatrici della società turca, strappando una condanna pubblica persino all’allora premier Erdoğan. Secondo i detrattori, Muhteşem Yüzyıl trasmetteva alle nuove generazioni un’immagine irriguardosa, edonistica e dissoluta dei venerabili artefici dell’epopea ottomana. Le dimensioni del suo successo, nondimeno, non sarebbero passate inosservate negli ambienti filogovernativi.
Nel 2017 approda sui teleschermi delle famiglie turche – e poi balcaniche e mediorientali – la serie Payitaht: Abdülhamid («La capitale. Abdülhamid»), trasmessa dalla prima rete pubblica turca TRT1; due stagioni, la seconda tuttora in corso, ad oggi 52 puntate da 130-180 minuti cadauna. Il protagonista è Abdülhamid II, terzultimo sovrano della dinastia ottomana, l’ultimo a governare il proprio impero con poteri assoluti; regnò dal 1876 al 1909, fino alla deposizione ad opera dei Giovani Turchi, combinando repressione, integralismo religioso e modernizzazione nel tentativo, vano, di arrestare l’inesorabile declino dell’impero. Il telefilm conserva dell’eredità dei predecessori l’amore per l’intrigo, le macchinazioni occulte e i drammi familiari, leitmotiv che la regia traspone tuttavia in una luce assai più edificante per la memoria storica della nazione. La figura del monarca è proposta acriticamente quale archetipo del sovrano integerrimo, il servitore dello Stato circondato di traditori e cospiratori, il patriarca e marito affettuoso quanto inflessibile. Lascivia e corruzione sono vizi propri dei soli villain della serie, per lo più pascià corrotti in combutta con le cancellerie occidentali, la massoneria e l’ebraismo internazionale. Fra le belle scenografie e la trama obiettivamente incalzante, benché inquietante nelle sue declinazioni revisioniste e scioviniste, fa capolino una moralità ingenua quanto sintomatica dell’epoca Erdoğan: le bottiglie e i bicchieri di alcolici, sostanze vietate dalla legge islamica ma ovviamente legali in Turchia, sono puntualmente censurate. Non c’è traccia, in Payitaht, della sensualità che aveva contraddistinto il Secolo magnifico.
Soffermandosi sul profilo storico-biografico del protagonista della soap, risulta persino troppo semplice tracciare un parallelismo tra due figure tanto controverse e polarizzanti, il sultano assolutista e panislamista e il carismatico presidente di una Turchia sempre meno laica e democratica. Il “regime hamidiano” fu promotore, a fine Ottocento, del rilancio dell’identità islamica dell’impero ottomano, della proiezione globale della Casa di Osman come protettrice dei popoli musulmani di tutto il pianeta. I sultani ottomani erano, dal Cinquecento, Califfi dell’Islam e Protettori delle Città Sante, detentori dello stendardo del Profeta e dunque, virtualmente, eredi di Maometto e leader spirituali della umma, la comunità universale dei fedeli. Abdülhamid tentò di rinvigorire l’ideale di una fratellanza islamica transnazionale a guida ottomana per farne una duplice arma, difensiva e offensiva, contro il separatismo delle minoranze cristiane e la voracità colonialista dell’Occidente.
Non è un azzardo teorizzare che Erdoğan stia patrocinando un’operazione propagandistica affine a quella del sultano per restituire alla Turchia il ruolo di leader del mondo musulmano. Lo dimostrano le posizioni assunte dal governo turco nel contesto della questione palestinese: il Reis, in qualità di presidente in carica dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, non ha esistato a sfidare gli antichi partner americani e israeliani attorno allo status di Gerusalemme. «Un nuovo attacco è stato scatenato, usando Gerusalemme come bersaglio per colpire l’intero Medio Oriente e tutti i musulmani», proclamava Erdoğan di fronte ai 57 capi di Stato dell’OIC, arrivando a paventare che «se Gerusalemme cadrà, perderemo anche Medina, la Mecca e la Kaaba» (Yeni Şafak, 16.12.2017). Slogan ancor più incendiari hanno attraversato la colossale manifestazione di solidarietà tenutasi lo scorso venerdì 27 maggio a Istanbul; all’apice della kermesse, circondato da un tripudio di bandiere turche e palestinesi e di simbologia panturchista, il presidente turco ha esortato i musulmani del mondo ad «agire contro i sionisti» per «[ri]conquistare Gerusalemme» (La Stampa, 19.05.2018). #Savaş, «guerra!», tuonavano alcuni commentatori della diretta facebook dell’evento.
In queste stesse settimane, Payitaht: Abdülhamid ripropone uno dei propri temi prediletti: la lotta del sultano per proteggere le province palestinesi dell’impero dalle macchinazioni delle potenze occidentali e del sionismo internazionale. Theodor Herzl, fondatore della dottrina sionista, è l’arcinemico della serie, la sinistra eminenza grigia che ordisce lo smembramento del sultanato per consegnare Gerusalemme al suo “popolo eletto”. «Gerusalemme è la dimora dei credenti! Gerusalemme è sotto la nostra protezione! Finchè vivremo, Gerusalemme non cadrà! #Freepalestine», titolava il 15 maggio la pagina facebook ufficiale Payitaht Abdülhamid, associandovi uno dei frequenti monologhi del protagonista dai toni non molto ottocenteschi e assai attuali.
Esempi del genere sono potenzialmente infiniti. Gli osservatori internazionali non hanno tardato a riconoscere nel telefilm un perfetto riflesso della weltanschauung di Erdoğan e del suo partito, una rilettura estremamente revisionista della storia atta ad alimentare una feroce retorica antioccidentale, antisraeliana o espressamente antisemita, antidemocratica e antisecolarista. Minoranze religiose, potenze europee, massoneria, Giovani Turchi, Vaticano ed ebraismo: tutto si condensa, in Payitaht, in una tentacolare cospirazione globale contro l’Islam e la Turchia, il bastione della fede assediato dai nemici interni ed esterni. La psicosi del complotto internazionale, onnipresente nello scenario politico turco, viene deliberatamente strumentalizzata dagli sceneggiatori della fiction, sofisticato ma non troppo subdolo strumento di propaganda governativa. In merito si veda, ad esempio, l’articolo del Washington Post «A Turkish TV blockbuster reveals Erdogan’s conspiratorial, anti-Semitic worldview» (15.5.2017). Una mozione di condanna è stata persino presentata al Parlamento europeo (European Parliament 2014-2019 – Committee on Foreign Affairs – Amendements 200-397, 12.5.2017), mentre il popolare servizio di streaming Netflix avrebbe rifiutato di commercializzare Payitaht per il suo esplicito antisemitismo. Indifferente alle critiche, lo stesso Erdoğan ha espresso il proprio plauso per la serie, sottolineando come «gli stessi intrighi» rappresentati nello sceneggiato si stiano «compiendo oggi nella stessa identica maniera» per mano dell’«Occidente» (Washington Post, 15.5.2017). Un giudizio pronunciato, significativamente, nell’imminenza dello storico referendum sulla riforma costituzionale del 16 aprile 2017.
Un’altra tornata elettorale, il prossimo 24 giugno, è l’ultimo ostacolo che si frappone tra le ambizioni del presidente turco e il conseguimento di un potere de facto incondizionato. Il bombardamento mediatico di retorica panislamista e revanscismo imperiale, di cui Payitath è forse il prodotto più raffinato, è una delle molte armi in cui il regime può confidare per conservare, e completare, il proprio predominio sulla vita pubblica turca.