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Tener viva la speranza di milioni di afghani

by redazione

intervista a Belquis Roshan (senatrice nella Camera alta del Parlamento afghano)

[intervista a cura di Enrico Campofreda, giornalista, esperto di Medioriente]

 

Senatrice Belquis, le pare realistica la proposta di Ghani d’inserire i talebani al governo?
Mi pare una sceneggiata. Se mai si dovrà compiere questo passo lo decideranno gli americani. Washington finanzia il governo afghano e i talebani stessi, magari ci saranno pure talebani che si tengono lontani da queste trame, ma sono una minoranza. L’esempio offerto negli ultimi mesi da Gulbuddin Hekmatyar è emblematico: è tuttora un personaggio politico molto potente e influente nel nostro Paese, potrebbe tranquillamente fare a meno di rapportarsi agli Stati Uniti. Invece non ha respinto le offerte di Ghani programmate dagli Usa, visto che sono quest’ultimi a dettare l’agenda. La proposta di Ghani è un diversivo per confondere le acque e imbrogliare la popolazione. Sta bene anche ai talebani, che sono sì cresciuti ma non hanno la forza per conquistare il potere con le armi. Così agli occhi dell’opinione pubblica loro restano in partita, mentre il governo (che non riesce a sconfiggerli) si rivende la mossa pacificatrice che, come ai tempi di Karzai, finirà in un nulla di fatto. Un fattore di preoccupazione per gli Usa sono quei talib ingaggiati da russi e iraniani e quelli foraggiati dai pakistani, che risultano incontrollabili dalla Cia.

Ma talebani e jihadisti del Daesh hanno progetti autonomi?
Non mi sembra. Certo, entrambi incutono terrore con stragi rivolte a militari e civili. I primi fanno sentire una presenza asfissiante in diverse province nelle quali contano più degli amministratori locali e delle truppe governative presenti solo formalmente. In diverse realtà sono i talib a riscuotere tributi, a gestire commerci legali e illegali, a decidere se le scuole si possono aprire o vanno chiuse o, ancor più frequentemente, devono essere riconvertite in madrasa vere fucine di fondamentalismo. Son loro a requisire fondi statali orientandoli verso i propri tornaconto anche personali. Il governo sa e lascia fare. L’area di Farah, che ben conosco perché per il mio mandato parlamentare faccio la spola fra Kabul e questa provincia, conta alcuni raggruppamenti taliban, in varie situazioni la popolazione subisce i soprusi per paura e perché non viene tutelata da polizia ed esercito governativi. A Farah ci sono militari, elicotteri, sono presenti reparti italiani (il mese scorso gli istruttori del nostro contingente hanno diretto l’ennesimo programma di assistenza ai colleghi afghani secondo quanto previsto dal Resolute support, nda), però non intervengono. E quando lo fanno censurano o reprimono le famiglie del posto cui i talebani chiedono vitto e tributi.

Il piano occidentale di normalizzazione dell’Afghanistan è fallito, restano le basi aeree statunitensi, l’occupazione militare magari con più contractors che marines, ma la situazione è stagnante. A suo parere tutto resterà immutato?
Quando quest’occupazione iniziò la popolazione era stanca dei soprusi talebani, ricordava e piangeva i lutti provocati dal conflitto interno fra i signori della guerra che avevano assassinato tanti civili. C’era chi sperava in una liberazione, pensando a un intervento temporaneo. I governi instaurati dagli Stati Uniti (le due amministrazioni Karzai, nda) hanno protetto i criminali di guerra, li hanno addirittura inseriti nelle Istituzioni (Rabbani, Sayyaf in Parlamento, Khalili, Fahim nel ruolo di vicepresidenti, nda). Agli Stati Uniti interessa solo restare qui per controllare la regione, avere un occhio strategico militare su Russia, Cina, India. Se la gente rimarrà passiva la situazione è destinata a mantenersi in stallo, finché la popolazione non avrà consapevolezza di chi sono i reali nemici lo sbocco democratico diventa impraticabile. Quando un civile viene ucciso dalle truppe governative o dalla Nato gli abitanti non sanno come reagire, vorrebbero giustizia, non ottengono riparazione. I più giovani cadono nella rete dei talebani che promettono vendetta e liberazione dagli stranieri e dal governo collaborazionista. Eppure paradossalmente i fondamentalisti sarebbero il nemico più facile da combattere, si rivelano deboli e contraddittori perché cambiano orientamento in base al tornaconto del momento.

Accanto al business dell’oppio – sempre presente con coinvolgimento di clan politico-affaristici locali, talebani, generali Nato, mafie internazionali – è in pieno sviluppo lo sfruttamento del sottosuolo afghano a opera di alcune aziende occidentali e ultimamente della China Metallurgical Corporation. A quest’ultima il presidente Karzai ha concesso la gestione delle miniere per trent’anni, i miliardi di dollari del contratto sono finiti nelle sue tasche. L’attuale presidente Ghani mostra il progetto del gasdotto Tapi come un’opportunità per la nazione, finirà come per le miniere con ruberie presidenziali?
I progetti che lei cita possono creare lavoro temporaneo per la popolazione, non di più. I mega programmi mancano di controllo oppure quest’ultimo è gestito dalla politica che si è sempre dimostrata inaffidabile e speculativa. Il ritorno per il Paese e i suoi abitanti è pari a zero sia sul piano d’investimenti produttivi, sia sul fronte di un possibile reddito nazionale. Vale anche per il Tapi che arricchirà le aziende dei soliti noti. Già si pianifica che il sostegno del percorso dei 770 km della pipeline sul territorio afghano sarà offerto all’azienda cementifera di Mahamoud Karzai, ennesimo fratello dell’ex presidente. Nel business è coinvolto anche un membro del Parlamento che si occupa, pensi un po’, di cosiddetti lavori pubblici. In realtà di pubblico sul mercato interno non c’è più nulla, i governi sorti con l’occupazione Nato e la collaborazione della comunità internazionale hanno promosso solo iniziative private che intascano i fondi degli aiuti senza creare infrastrutture. Voci ufficiose calcolano l’introito dei dazi del Tapi, per il passaggio del gas sul nostro territorio, sui 300 milioni di dollari l’anno. Il rischio che questi introiti finiranno sui conti personali di uomini di governo, come ai tempi di Hamid Karzai, è altissimo. Solo un governo realmente popolare potrebbe prevedere un utilizzo delle risorse per la gente, il nostro esecutivo fa il contrario. Faccio l’esempio del commercio: il nostro governo apre le frontiere a merce di secondo o terz’ordine proveniente da Iran e Pakistan. Non c’è nessun controllo sulla qualità dei prodotti, solitamente scadentissimi, né c’è difesa della salute dei cittadini. La massima istituzione afghana, nella quale sono stata eletta, è da anni congelata, non è stata più rinnovata con una consultazione; tutto resta fermo come in una palude. La gente vede queste cose. Nonostante sia tenuta all’oscuro da un’informazione para governativa, intuisce che esistono conflitti d’interesse e ruberie. Occorre organizzare chi non ne può più, occorre creare un fronte di lotta. Una decina d’anni fa, quando iniziammo a fare questi discorsi, ci accusavano di essere distruttivi, spie degli stranieri, oppure folli utopisti. Lo dicevano proprio i reggicoda dei governi-fantoccio che stanno depredando il Paese, svendendolo agli interessi imperialisti. Ora mi sembra ci sia più coscienza, c’è paura sì, ma c’è più coscienza. Quando giro, non solo nella mia provincia dove sono conosciuta, ma anche qui a Kabul le persone si fermano per dirmi: hai ragione, le vostre denunce sono giuste. Me l’han detto anche dei militari.

E allora senatrice, cosa manca a chi fa una reale opposizione per capitalizzare questo lavoro di coscienza politica?
Manca una forza progressista di massa che diriga la popolazione, noi lavoriamo per quest’obiettivo. Purtroppo non giocano a favore tutti coloro che in nome della rivoluzione, del socialismo hanno lasciato segnali terribili di devastazione e morte, come fece il partito filosovietico negli anni Settanta, come hanno fatto jihadisti e talebani in seguito, e la stessa sedicente democrazia di questi ultimi 17 anni. La gente è confusa, non si fida di nessuno. La via che trasforma la consapevolezza in azione è lunga, tutto è reso più difficile dall’analfabetismo e dal terrore seminato fra la gente dal doppio binario di attentati fondamentalisti e repressione militare.

Oggi questo percorso è più difficile di sei anni fa quando lei venne eletta?
Da quando ero consigliera provinciale per poi diventare senatrice ne ho viste molte. Ho visto tanti sedicenti democratici che si proponevano in politica per cambiare – dicevano – il panorama. Io non ho mai pensato di lavorare col governo, ho sempre pensato di utilizzare ogni spazio per dare voce alla gente. Nei primi tempi ero invitata dai media anche televisivi, da quando ho espresso dissenso e lanciato denunce gli spazi si son chiusi. Un’arma che viene usata contro il mio impegno è il boicottaggio. Lo praticano addirittura le strutture istituzionali che non mi comunicano taluni appuntamenti, oppure cercano di usare anche miei conoscenti per impedirmi di osservare, di indagare. Di recente un amico mi ha riferito d’essere stato contattato da un addetto governativo perché mi convincesse a non partecipare a un determinato incontro…

Si presenterà alle prossime elezioni (sperando che ci siano)?
Non l’ho deciso. Le elezioni e gli incarichi conseguenti sono un’opportunità straordinaria per chi mira a una carriera personale, lecita e illecita. Si può rubare pur non stando al governo, visto che si presentano un’infinità di occasioni anche per chi riveste incarichi di semplice rappresentanza. Chi, come me, usa questo mezzo per la lotta e l’emancipazione popolare ha ben altre prospettive e corre taluni rischi. Ma di rimando riceve la benefica sensazione di tener vive le speranze di milioni di afghani. Se i compagni e gli elettori me lo chiederanno mi renderò ancora disponibile.

 

(pubblicato su Confronti di maggio 2018)

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