di Fabrizio Battistelli (Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche, Università di Roma, la Sapienza)
Come è naturale, le elezioni non rappresentano soltanto una indispensabile scadenza per il funzionamento delle istituzioni democratiche, ma anche una cruciale verifica degli umori di un paese. Uno dei messaggi più riconoscibili nella recente prova elettorale è il peso che in essi ha giocato e gioca la questione immigrazione. Su ciò convergono osservatori e protagonisti a livello nazionale e internazionale. All’indomani delle elezioni del 5 marzo il presidente francese Macron ha osservato: «Indubbiamente l’Italia ha sofferto della pressione in cui vive da mesi e mesi, compreso un contesto di forte pressione migratoria» e, trovandosi insieme a commentare i risultati italiani, lui e la cancelliera tedesca Merkel hanno concluso: «sono le conseguenze delle sfide migratorie a cui non abbiamo saputo rispondere».
La questione immigrazione e le elezioni
In Italia, dunque, come in molti altri paesi europei, la questione immigrazione è centrale per due motivi. Da un lato si tratta di un fenomeno epocale destinato a trasformare gli assetti sociali dell’Unione e degli Stati che ne fanno parte. Dall’altro, essa si presta efficacemente a tracciare i confini tra i partiti e a segnalare agli elettori le appartenenze ideologiche (che, con l’avvento delle nuove destre populiste e sovraniste, non sono scomparse ma sono semplicemente cambiate). Il dibattito, in questi casi, tende verso un tasso di razionalità che è inversamente proporzionale alla serietà delle sue implicazioni. La campagna elettorale italiana è emblematica in questo senso: partiti e movimenti hanno adottato toni concitati e sferrato attacchi furibondi contro gli avversari, definiti “assassini” e con “le mani sporche di sangue” (dopo il massacro della povera Pamela a Macerata). Al di là dell’eccitazione elettorale, comunque, le prese di posizione politiche sull’immigrazione non sono funghi (commestibili o velenosi a seconda dei punti di vista) che spuntano nella notte e il giorno dopo spariscono. L’immigrazione è un fenomeno che è venuto per restare. Esso quindi andrebbe compreso in tutti i suoi aspetti, piuttosto che stigmatizzato come un capro espiatorio o, meglio ancora, allevato gelosamente come una gallina dalle uova d’oro per i rendimenti politici che garantisce.
Invece, adottando queste due visioni la destra ha imbracciato la questione immigrazione e ne ha fatto, insieme alle promesse di riduzione delle tasse (flat tax) e di abbassamento dell’età pensionabile (riforma Fornero), uno degli assi portanti della sua campagna elettorale. La domanda è: perché questa strategia ha avuto tanto successo? Come accennavamo, la drammatizzazione del fenomeno migratorio non è una tendenza soltanto italiana, né è sorta con le elezioni del 4 marzo. Da tempo nel nostro paese, sia pure con qualche vincolo culturale in più rispetto ad altri (ad esempio nell’Est europeo) è in atto un processo collettivo che lo psicanalista Franco Fornari avrebbe definito paranoideo: lo spostamento della paura dall’interno del soggetto al suo esterno, rappresentato da uno straniero identificato come “nemico”. Inizialmente quest’ultimo appariva tale in quanto potenziale criminale e veniva definito sulla base della sua identità nazionale (“l’extracomunitario” marocchino o albanese in concomitanza con le prime “ondate” di immigrati). Oggi l’ostilità è giustificata dalla potenziale minaccia jihadista e la definizione dello straniero si basa sulla sua identità religiosa. Sia quella nazionale, sia quella religiosa sono due identità difficili o impossibili da modificare. Questo apre già di per sé la strada allo stereotipo, nel secondo caso ancora più coinvolgente del primo per via dei significati profondi che la dimensione religiosa porta con sé. In particolare, l’allarme è suscitato da una fede che si presenta come socialmente pervasiva e fortemente strutturata quale quella musulmana. Nell’era del terrorismo le condizioni per la sua colpevolizzazione ci sono tutte e sono state così scolpite dal premier ungherese Viktor Orban: «ogni singolo migrante pone un rischio di sicurezza pubblica e di terrorismo […] tutti i terroristi sono fondamentalmente dei migranti». Da qui quello che possiamo chiamare il sillogismo di Orban, largamente diffuso tra i populisti: gli immigrati sono spesso musulmani; i musulmani sono spesso terroristi; in conclusione gli immigrati sono spesso terroristi. Sebbene nessuna di tali affermazioni sia di per sé esatta, il collegamento tra esse sembra funzionare e fa breccia nell’opinione pubblica, destinataria di messaggi nei quali gli immigrati vengono sistematicamente presentati come una minaccia.
Immigrazione e immigrati nei discorsi dei politici
In questo quadro quali posizioni hanno assunto leader e forze politiche sui temi della sicurezza e dell’immigrazione (significativamente declinati insieme) nelle elezioni del marzo 2018? In materia di sicurezza il Partito democratico ha cercato di tenere insieme la prevenzione strutturale e quella situazionale con la parola d’ordine renziana di “un euro in sicurezza e uno in cultura”, contemporaneamente cercando di spostare l’attenzione sulle periferie con l’obiettivo di “rammendare” (secondo la metafora di Renzo Piano) i territori urbani in crisi. Sullo specifico tema dell’immigrazione, a differenza di altre forze politiche per il Partico Democratico il collegamento con la sicurezza è stato solo indiretto. Rivendicando l’efficacia del decreto Minniti, il PD ha citato il controllo degli sbarchi, significativamente diminuiti nell’ultimo anno grazie agli accordi con la Libia, nonché le rivendicazioni che il governo di centrosinistra ha avanzato nei confronti dell’Europa affinché condividesse la gestione della crisi migratoria. Contro accordi con i paesi di partenza, che non garantiscono i diritti umani, invece, si è pronunciato Liberi e Uguali, che ha reclamato la disdetta del memorandum d’intesa sottoscritto con il governo di Tripoli nel febbraio 2017. LeU ha anche proposto l’abrogazione della legge Bossi-Fini, da sostituire con un sistema di ingressi regolari, un dispositivo di asilo europeo e un rafforzamento del programma di accoglienza modellato sull’attuale Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle, gli obiettivi e i toni in materia di immigrazione sono apparsi complessivamente sfumati, paragonati a quelli molto più netti dei competitor alla propria sinistra e, soprattutto, alla destra. Luigi Di Maio, che nell’estate precedente aveva espresso solidarietà alle forze dell’ordine dopo lo sgombero a Roma del palazzo di piazza Indipendenza occupato dai profughi, su La Stampa del 3 marzo 2018 lancia due slogan che potremmo definire centristi come «sicurezza e legalità» e «stop al business dell’immigrazione». Con un occhio rivolto ai giovani del Sud, il capo M5S ha proposto diecimila assunzioni nei corpi di polizia e altrettanti nelle commissioni per l’esame delle richieste di asilo. L’ampliamento degli organici di Polizia e Carabinieri sarebbe servito a presidiare i quartieri delle città, anche per «evitare che una persona debba difendersi da sola» (in questo caso con un occhio critico nei confronti della legittima difesa illimitata proposta dal centrodestra).
Nel Programma per l’Italia, sottoscritto un po’ svogliatamente dalla coalizione di centrodestra nel gennaio 2017, la sicurezza risulta al secondo posto tra le priorità, subito dopo la crescita economica e prima delle famiglie e della piena occupazione. Alla voce “Più sicurezza per tutti” figurano il blocco degli sbarchi, corredato da “respingimenti assistiti” e accordi con i paesi di origine dei migranti economici, un Piano Marshall per l’Africa, il rimpatrio dei clandestini e, soprattutto, “l’abolizione dell’anomalia solo italiana della concessione indiscriminata della sedicente protezione umanitaria, mantenendo soltanto gli status di rifugiato e di eventuale protezione sussidiaria”. Anche da segnalare, al punto successivo, l'”introduzione del principio che la difesa è sempre legittima”.
Passando dalla coalizione di centro-destra ai tre partiti che ne hanno fatto parte, fin dall’inizio questi hanno preferito mantenere distinti i simboli e i manifesti elettorali. Sotto l’unico titolo «sicurezza» la Lega si è presentata agli elettori con un programma incentrato su quattro obiettivi: 1) «Lotta al terrorismo»; 2) «Blocco degli sbarchi e respingimenti assistiti»; 3) «Rimpatrio di tutti i clandestini»; 4) «Ampliamento della legittima difesa». Quanto a Forza Italia, il programma sulla politica migratoria è per i titoli: blocco degli sbarchi, accordo con la Libia e gli altri paesi di transito, diritto di partenza solo per i rifugiati, rimpatrio immediato per chi non ha diritto d’asilo, piano di investimenti per l’Africa. Infine, Fratelli d’Italia presenta il «Il movimento dei patrioti in 15 priorità», al cui punto 4 sono enunciati i seguenti obiettivi: il contrasto all’immigrazione irregolare e il no all’automatismo dello ius soli, il blocco navale e il rimpatrio sulla base di accordi con gli Stati del Nord Africa. A ciò si aggiungono l’abolizione della protezione umanitaria, l’asilo soltanto per donne e bambini, il decreto flussi per l’immigrazione regolare «solo per nazionalità che hanno dimostrato di integrarsi e non creano problemi di sicurezza». Di nuovo investimenti in Africa per «aiutarli a casa loro» e, in Italia, «prima gli italiani» nell’accesso ai servizi sociali e alle case popolari.
Non è tuttavia dai vari programmi, accomunati tra loro da uno stile scarno e burocratico, che trapelano gli accenti più veri e i sentimenti più profondi dei partiti e dei loro esponenti, bensì dalla materia incandescente costituita dalle sortite e dagli scontri nel fervore della campagna elettorale. Nello schieramento che si oppone senza mezzi termini all’immigrazione si distingue per il suo tono perentorio Matteo Salvini: «Libererò Albenga da tutti i clandestini, strada per strada, parco per parco, autobus per autobus – promette il leader della Lega nel comizio tenuto il 9 febbraio nella città ligure – porte aperte a chi soffre e scappa dalla guerra e si comporta bene. Ma il primo che crea disordini o che cerca di imporre valori diversi dai nostri va fuori». Lapsus involontario o brand identitario rivendicato consapevolmente, un pesante richiamo alla razza fa irruzione nella campagna elettorale per la Regione Lombardia, concomitante con le elezioni politiche. L’altrimenti poco noto candidato presidente Attilio Fontana (Lega) balza agli onori della cronaca nazionale rilanciando a metà gennaio la tesi della “sostituzione etnica”: «oramai è giunto il momento di decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate».
A gettare benzina sul fuoco interviene ai primi di febbraio la tragica morte di Pamela, la ragazza romana che a Macerata è stata uccisa e fatta a pezzi, un delitto per il quale viene immediatamente indagato un gruppo di immigrati irregolari di nazionalità nigeriana. Di lì a poco Luca Traini, un ventottenne del luogo in precedenza candidatosi con la Lega alle elezioni amministrative, percorre Macerata alla guida di un’auto e, avvolto in una bandiera italiana, esplode numerosi colpi di pistola che feriscono sei persone di colore (una delle quali gravemente). Come riferisce l’Ansa del 5 febbraio 2018, i due episodi vengono collegati tra loro da Giulia Bongiorno, candidata della Lega, e da Giorgia Meloni, la quale definisce “vergognoso” il fatto che «il presidente Sergio Mattarella non abbia telefonata alla famiglia della ragazza uccisa». Sul fronte opposto il leader designato di Liberi e Uguali Pietro Grasso critica l’uso del termine “follia” per il gesto di Traini, introducendo invece concetti come “razzismo” e “terrorismo”. Di “fascismo” e “terrorismo” parla anche Laura Boldrini, che cita tra i “maestri dell’odio” Matteo Salvini, il quale «in questi anni ha creato paura e caos». A sua volta Salvini replica parlando di una «immigrazione fuori controllo che hanno organizzato» [i governi di centrosinistra], rischiando di «provocare reazioni demenziali». La responsabilità è tutta di «una sinistra che ha pianificato una sostituzione di popoli perché hanno bisogno di schiavi per lavorare».
Alla prova del voto, l’affermazione di Fratelli d’Italia è stata inferiore alle aspettative della vigilia e l’azionista di maggioranza Berlusconi è stato sorpassato dal junior partner Salvini. Ciò fa pensare che nel fortunato raccolto di quest’ultimo un ruolo di primo piano sia stato rivestito non solo dai toni, ma anche dalla continuità dell’impegno anti-immigrazione espresso dalla Lega. Da un lato, infatti, Silvio Berlusconi non si è mai trovato molto a suo agio sui temi internazionali, arena distante e inadatta al suo stile personalistico e incline al compromesso. Incalzato in passato a causa di decisioni rivelatesi critiche per il nostro paese quali la liquidazione manu militari del regime di Gheddafi o l’accettazione del regolamento di Dublino, il leader di Forza Italia si è solitamente discolpato attribuendone la responsabilità al presidente della Repubblica o ai governi di centrosinistra. Invece, in occasione dei tragici fatti di Macerata Berlusconi ha alzato la voce per stigmatizzare la presenza di 630.000 immigrati sul territorio italiano, dei quali soltanto 30.000 legittimati a restare come rifugiati, a fronte dei rimanenti 600.000 definiti «una bomba sociale pronta esplodere, perché pronta a compiere reati».
Nello stesso tempo lo scarso impatto delle dichiarazioni berlusconiane non può imputarsi alla loro formulazione relativamente moderata, in quanto quasi altrettanto deludente si è rivelato il risultato delle affermazioni di Giorgia Meloni, che pure ha usato parole veementi come quelle di Salvini e anche più circostanziate nel merito. La leader di FdL, che nel 2016 aveva presentato un progetto di legge per l’introduzione del reato di integralismo islamico, al congresso di Trieste del 2-3 dicembre 2017 aveva illustrato due suoi copyright: il blocco navale della Libia e l’abolizione della protezione umanitaria. Per non parlare della proposta, una vera e propria contromisura nei confronti del rischio di “sostituzione etnica” ad opera degli immigrati, costituita dagli incentivi alla maternità delle donne italiane. Come avrebbe chiosato il suo collega di partito Carlo Fidenza (vedi l’articolo Vi spiego l’Italia di Giorgia Meloni. Ecco il programma in Affari italiani.it del 28/02/2018), l’obiettivo era di «fermare l’immigrazione clandestina, bloccando le partenze ed espellendo gli irregolari, stroncare il business dell’accoglienza che ha ingrassato certe cooperative, abolire l’anomalia tutta italiana della protezione umanitaria che regala il permesso di soggiorno al 20% degli stranieri che sbarcano». Il limite (involontario) di Meloni è rappresentato dal relativo ritardo con il quale una figura come la sua, giovane e sostanzialmente indenne dall’eredità post-fascista dell’MSI, ha assunto la leadership del nuovo partito e ha finalmente potuto prendere in mano il dossier immigrazione.
Tutto al contrario la Lega a vocazione nazionale di Salvini, pur essendo oggi assai distante da quella “classica” del secessionista Bossi, ha goduto dello straordinario vantaggio di una tradizione nativista fedelmente mantenuta per quasi trent’anni. L’unico cambiamento ha riguardato l’aggiornamento dell’antagonista dichiarato, passato dal “diverso” interno (il meridionale immigrato nel Nord Italia) a quello esterno (l’immigrato globale proveniente dal Sud del mondo). Evidentemente agli occhi dell’elettorato leghista, nel passaggio del testimone da una generazione all’altra, il nativismo “nazionale” di Salvini si è innestato senza soluzione di continuità su quello nazionalista del vecchio fondatore. Al netto dell’aspra polemica contro i meridionali nullafacenti e contro Roma ladrona, aveva messo per tempo nel mirino (fortunatamente soltanto metaforico) anche gli immigrati stranieri. Memorabile l’intervista al Corriere della sera del 16 giugno 2003 nella quale il fondatore della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, aveva dichiarato che contro l’immigrazione clandestina voleva sentire “il rombo dei cannoni”. Da capro espiatorio a gallina che dispensa le uova d’oro del consenso politico, nove anni dopo l’immigrazione dal Maghreb in fiamme viene salutata da Bossi come un soccorso al governo di centro-destra: «il rischio immigrazione – dichiara il 22 febbraio 2011 – aiuta Berlusconi e anche noi». I temi cambiano, la loro funzionalità resta.
Fenomeno migratorio e rappresentazione
Se la presentazione politica dell’immigrazione risente dell’obiettivo che hanno leader e partiti di massimizzare i risultati elettorali, la presentazione che ne propongono i media risente dell’obiettivo di massimizzare l’audience. Invece di inquadrare razionalmente quello migratorio come un fenomeno sociale che apporta costi e benefici, i media si focalizzano quasi unicamente sui primi, a cominciare dalla aleatoria, ma ovviamente gravissima, minaccia terroristica. Alla ricerca dell’evento “notiziabile” l’atteggiamento dei media può anche oscillare, passando dall’allarme all’empatia. Ad esempio nel settembre 2015 la foto del corpo del piccolo Aylan Kurdi (tre anni), esanime su una spiaggia turca, ha momentaneamente modificato il framing mediatico che ha per oggetto i migranti, visti questa volta come persone in carne e ossa, vittime esposte a rischi estremi, in contrasto con l’immagine di quegli univoci autori di minacce che essi apparivano sino al giorno prima (A. Sciurba, Aylan and Colonia. From the War against migrants to the War against Refugees, https://governarelapaura.unibo.it, n. 1, 2017). Salvo subire due mesi più tardi una nuova inversione di tendenza, a causa dell’attentato al Bataclan di Parigi, che tornerà a focalizzare il discorso mediatico sugli immigrati come concausa, se non causa diretta, della minaccia terroristica.
Da un’analisi del contenuto sulla copertura delle “primavere arabe” (2011-12) da parte di cinque quotidiani italiani (Il Corriere della sera, la Repubblica, la Stampa, il Fatto Quotidiano e il Giornale) emerge che i giornali esaminati hanno inquadrato i possibili effetti di quella crisi internazionale nella categoria dei rischi senza distinguerla da quella delle minacce (M. Grazia Galantino, Migration as a risk for security. Risk frames in the Italian news on Libya war and its aftermath, in Mondi Migranti, n. 3, 2017). In particolare sono stati descritti come “rischi” gli effetti negativi delle migrazioni a due livelli macro: quello globale, per la stabilità economica e politica del mondo occidentale in genere e dell’Europa in particolare; quello nazionale (italiano), enfatizzando i costi attuali e potenziali per la società di accoglienza. Contemporaneamente appaiono largamente trascurati sia i costi per i migranti stessi (che vanno dalla precarietà e durezza delle loro condizioni di sopravvivenza fino all’eventualità della morte), sia i benefici socio-economici che essi sono in grado di apportare.
I benefici dell’immigrazione
Vari studi mostrano che l’immigrazione determina benefici in più ambiti: demografici (compensazione del declinio delle nascite e della senescenza della popolazione), economici (apporto al Prodotto interno lordo in termini di valore aggiunto delle attività produttive realizzate), fiscali e previdenziali (contributo alla tassazione e alla previdenza sociale più che proporzionale, soprattutto nel breve e medio periodo, rispetto alle prestazioni assistenziali e pensionistiche effettivamente fruite ecc.). Viceversa, i migranti vengono spesso associati a circostanze dannose quali clandestinità, criminalità, radicalizzazione politica e religiosa, terrorismo. La stampa contribuisce così a costruire e diffondere l’immagine del migrante come attore (anche intenzionalmente) negativo, vera e propria minaccia per la società e per i suoi componenti (i cittadini). Un compact di rappresentazioni del fenomeno migratorio e dei suoi protagonisti che accompagna notizie e commenti che hanno per oggetto aspetti problematici quali la pressione degli sbarchi, l’indistinzione tra profughi e immigrati economici, gli oneri (i famosi 35 euro giornalieri) dei centri di accoglienza, così come le disfunzioni di questi ultimi, i conflitti con i residenti ecc.
L’immigrato come capro espiatorio
Tuttavia non basta denunciare che, in vista dell’aumento dell’audience, i media privilegiano sistematicamente le varianze piuttosto che le routine, gli (infrequenti) comportamenti anomali piuttosto che quelli (statisticamente prevalenti) definibili come regolari, riducendo l’intero fenomeno a minaccia e trascurando così le molteplici valenze anche positive dell’immigrazione. L’interrogativo a cui rispondere, tanto cruciale quanto spesso trascurato, riguarda la preoccupante ma innegabile efficacia della definizione dell’immigrazione, neppure come costo ma precisamente come minaccia, presso una parte rilevante dell’opinione pubblica. Perché gli allevatori del capro espiatorio hanno tanto successo? La risposta è relativamente semplice. Essa ha a che fare con il divario che esiste tra la dimensione macro e la dimensione micro nelle quali prendono corpo i fenomeni. Nel mix di benefici e di costi di cui è composto (analogamente alla maggioranza dei fenomeni sociali) il fenomeno migratorio, tendenzialmente i benefici si manifestano a livello macro mentre i costi si manifestano a livello micro. Ovvero, detto brutalmente, i benefici li tesaurizza in prevalenza il sistema economico e sociale, mentre i costi li sostengono (o quanto meno li “vedono”) in prevalenza gli individui.
La percezione del cittadino medio
È raro che questi ultimi, in quanto singoli cittadini, si pongano il problema della sostenibilità del sistema di cui fanno parte e dunque che apprezzino adeguatamente i fattori che vi contribuiscono. Nel processo di iper-individualizzazione tipico della società contemporanea il cittadino (o ciò che ne resta) è oggetto di un’imponente pressione a ridursi alla dimensione privata, consumistica e competitiva, e reagisce assolutizzando sia la funzione di utilità sia i bisogni, le identità e le visioni del mondo che lo riguardano direttamente. Prescindiamo da coloro che dalla propria collocazione professionale sono posti a diretto contatto con gli “stranieri” (di fatto un ridotto numero di imprenditori economici oppure di addetti all’assistenza, all’istruzione, alla cura ecc.). Il cittadino medio, soprattutto se residente in una grande città, intrattiene con gli “ stranieri” rapporti che sono solo raramente di natura funzionale e ancora più raramente personale, mentre nella maggioranza dei casi si risolvono nella mera compresenza nel medesimo spazio. Tutto ciò spesso equivale – non nel cielo dei princìpi ma sulla terra della quotidianità – ad abitare nello stesso condominio, a fruire dello stesso parco, a (tentare di) salire sullo stesso autobus, metropolitana, treno di pendolari. A ciò si aggiungono altre forme di trade off nell’accesso a beni e servizi – ricerca di un’occupazione, liste di attesa per le visite e gli accertamenti sanitari, per l’iscrizione dei figli agli asili nido, per l’assegnazione degli alloggi popolari – che alimentano relazioni competitive che possono sfociare in conflittualità anche violente. Con l’aggravante che tali situazioni rinviano a un’incresciosa discriminazione di classe tanto tra stranieri e autoctoni, questo tra questi ultimi. I costi della convivenza sociale, infatti, non sono equamente distribuiti tra tutti i ceti, bensì coinvolgono in misura prioritaria o esclusiva i ceti bassi e medio-bassi, con particolare riferimento a quelli residenti nei quartieri periferici delle città italiane.
A causa del divario tra la dimensione macro e quella micro, per l’uomo della strada il contatto con l’immigrazione ha luogo prevalentemente in relazione agli aspetti problematici piuttosto che a quelli positivi. Studiando gli atteggiamenti degli autoctoni (ad esempio i residenti di un quartiere) nei confronti degli immigrati, emerge che non viene attribuito molto peso ai benefici apportati da questi ultimi, conosciuti in modo indiretto e comunque visti con la scarsa convinzione di un qualcosa che appare privo di concreta influenza sulla propria vita. Il discorso è completamente diverso riguardo agli aspetti percepiti come vitali quali il lavoro o la fruizione delle prestazioni assistenziali, ma anche banali quali l’accesso agli spazi pubblici dove la presenza degli immigrati viene avvertita a torto o a ragione come competitiva e addirittura, specie da chi si trova in condizioni deprivate, come ingiustamente privilegiata. Se non è inquadrata in un frame ideale più ampio (come può essere per l’individuo una specifica appartenenza religiosa, sociale, politica ecc.), la frustrazione e il confronto insidioso possono alimentare rancore e ostilità. Tali sentimenti, inizialmente diretti verso il capro espiatorio immigrato, nel tempo tendono a investire l’intero sistema sociale e politico (i partiti ma anche le istituzioni dello Stato), percepiti come ingiusti e quindi meritevoli di sfiducia e di rifiuto.
Quali proposte per il futuro?
Con tutta la difficoltà di passare dall’analisi alla proposta, è pur possibile intravedere qualche via d’uscita. Quanto al livello macro, se è da auspicare un approccio equilibrato e responsabile da parte dei media, non è possibile ignorare come le logiche di azione organizzativa dei medesimi spingano a privilegiare ciò che di un evento fa una notizia cioè la sua sensazionalità, a scapito dell’approfondimento della contestualizzazione e della valutazione critica dei suoi significati. Quanto al livello micro, esperienze nel senso auspicato sembrano più perseguibili in altre agenzie di socializzazione quali la scuola, l’associazionismo, la chiesa, già oggi impegnate in questi compiti. Ciò che può essere reclamato in più è un maggiore e diverso investimento da parte delle amministrazioni pubbliche, a cominciare da quelle locali, che dovrebbero uscire dall’inerzia in cui molte di esse sono arenate, dando adeguato spazio alla gestione del fenomeno migratorio nell’ambito delle politiche pubbliche sul territorio, contestualmente venendo messe dallo Stato nelle condizioni di realizzarle. Sebbene in materia di immigrazione la fase del soccorso e della prima accoglienza siano lontane dall’essersi esaurite, è evidente a tutti che nel nostro Paese è arrivato il momento di affrontare il nodo strategico dell’integrazione-inclusione; un obiettivo che esso passa per il riconoscimento sia dei benefici sia dei costi che ciascun attore incontra e sostiene in questo percorso.
(Pubblicato su Confronti 06/2018 in forma ridotta)
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[…] Alla prova del voto, l’affermazione di Fratelli d’Italia è stata inferiore alle aspettative della vigilia e l’azionista di maggioranza Berlusconi è stato sorpassato dal junior partner Salvini. Ciò fa pensare che nel fortunato raccolto di quest’ultimo un ruolo di primo piano sia stato rivestito non solo dai toni, ma anche dalla continuità dell’impegno anti-immigrazione espresso dalla Lega. Da un lato, infatti, Silvio Berlusconi non si è mai trovato molto a suo agio sui temi internazionali, arena distante e inadatta al suo stile personalistico e incline al compromesso. Incalzato in passato a causa di decisioni rivelatesi critiche per il nostro… Continua su confronti […]
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