di Raul Caruso (economista, Università Cattolica del Sacro Cuore. Direttore del Center for Peace Science, Integration and cooperation [Cespic] di Tirana)
Nelle scorse settimane l’incontro a Singapore tra Donald Trump e Kim Jong-un sembrava inaugurare una nuova stagione di pacificazione nella penisola coreana e più in generale nel sud-est asiatico. L’amministrazione americana, peraltro, aveva indicato in questo incontro una grande vittoria diplomatica. In realtà la lettura di quanto avvenuto (e di quanto avverrà) è significativamente diversa.
A uscirne vittorioso non è sicuramente The Donald. È evidente che per interpretare al meglio le posizioni politiche e gli eventi che seguiranno nei prossimi mesi nella penisola coreana non si può considerare il ruolo della Cina. Da diversi anni oramai, la Cina è considerata il principale rivale strategico degli Stati Uniti. Questa convinzione ha allignato in una parte consistente della classe dirigente americana seppure con sfaccettature diverse. L’amministrazione repubblicana ora alla guida del paese ha deciso di abbracciare una linea intransigente e muscolare in discontinuità con l’approccio aperturista di Barack Obama.
Non a caso, nel suo primo discorso sullo stato dell’unione The Donald invece aveva indicato in Russia e Cina i paesi rivali dal punto di vista strategico e militare. Anche l’escalation tariffaria contro la Cina non è altro che una componente di un confronto che in ultima analisi è principalmente di natura strategica e che riguarda l’ordine mondiale. Come è noto, uno dei terreni di confronto tra Stati Uniti e Cina è la penisola coreana. Gli Stati Uniti hanno stabilizzato la Corea del Sud all’indomani della seconda guerra mondiale e non hanno mai fatto mancare a questa il sostegno politico, economico e militare. La Cina e la Corea del Nord dopo la guerra di Corea hanno rafforzato i loro rapporti per mezzo di un trattato di amicizia e alleanza militare fin dal 1961.
Negli ultimi anni, tuttavia, con l’avvento al potere di Kim Jong-un i rapporti tra Pechino e Pyongyang erano divenuti più tesi ed aspri. Nel dicembre del 2017, la Cina, infatti, si era espressa nel consiglio di sicurezza dell’Onu a favore dell’inasprimento delle sanzioni contro la Corea del Nord. In questo contesto come dovremmo interpretare gli esiti dell’incontro tra Kim Jong-un e Trump? Gli americani hanno davvero conseguito una vittoria in ambito diplomatico?
Rispondere è sicuramente complesso, ma in realtà, l’unico davvero che ne esce vincitore è il dittatore nord coreano. In primo luogo, a dispetto di quanto è stato riportato dalla stampa, a Singapore The Donald e Kim Jong-un un si sono ritrovati d’accordo solo su un breve comunicato di quattro punti che non è altro che una comunicazione di intenti. Nei fatti, non esiste un piano specifico per la denuclearizzazione della Corea del Nord ma apparentemente una volontà di farlo e un impegno per la pace. Questo perché il vero risultato che voleva incassare The Donald era la possibilità di poter parlare e negoziare con Kim Jong-un senza interpellare l’amministrazione cinese in passato accusata di non fare abbastanza per limitare le provocazioni nord coreane. In questo modo, infatti, il presidente americano pensava di mettere ulteriore pressione al nemico cinese. Questo, peraltro, era anche un risultato desiderabile per Kim Jong-un che in questo modo si è reso più autonomo rispetto all’alleato cinese ma soprattutto ha aumentato il suo peso specifico nella diplomazia tra le due potenze.
In questo momento, infatti, Kim Jong un può sfruttare questa sua nuova posizione per ottenere sia dagli Stati Uniti che dalla Cina concessioni e aiuti di vario tipo. A ogni mossa in favore di uno dei due contendenti ne probabilmente seguirà un’altra a favore dell’altro. Gli ultimi giorni sono rivelatori in questo senso. Non appena è scoppiata la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, lo scaltro dittatore coreano ha poi deciso una mossa contro gli Stati Uniti. E infatti in una dichiarazione seguita agli incontri bilaterali a Pyongyang diffusa dai canali ufficiali nordcoreani si stigmatizza l’approccio americano ai negoziati.
L’interpretazione è chiara: da un lato si dice a The Donald di non presentarsi più a mani vuote e dall’altro si lancia un segnale di fedeltà all’amico necessario Xi Jinping. I leader delle due potenze sono in qualche modo impelagati in una situazione da cui sarà difficile uscire. Trump non può rischiare di essere sbugiardato nell’unico successo di cui si vanta a livello diplomatico e nel contempo il presidente cinese non può permettersi di “perdere” la Corea del Nord come alleato e vicino di casa fedele. È chiaro quindi che ...the winner is… Kim Jong-un poiché è riuscito a riposizionarsi nella condizione migliore possibile. Dobbiamo solo sperare che in questa posizione voglia favorire l’apertura e lo sviluppo del suo paese – tra i più poveri al mondo – e non solamente garantire la sopravvivenza del suo regime liberticida.