di Luigi Sandri (redazione di Confronti)
È già una novità, rispetto ai suoi due predecessori che compirono eguale viaggio, un papa che, parlando al Consiglio ecumenico delle Chiese, non rivendica espressamente i titoli che la dogmatica cattolica gli assegna. E proprio con questo stile Francesco il 21 giugno si è presentato a Ginevra per i settant’anni del Cec.
«L’ecumenismo ci ha messi in moto secondo la volontà di Gesù e potrà progredire se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale»: così ha detto Bergoglio, accolto dai massimi dirigenti del Cec, in prima fila il suo segretario generale, il pastore luterano norvegese Olav Fykse Tveit. Precisando, poi: «Non abbiamo paura di lavorare in perdita! L’ecumenismo è “una grande impresa in perdita”. Ma si tratta di perdita evangelica, secondo la via tracciata da Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Luca 9,24)… Solo così si porta frutto nella vigna del Signore».
Il moderno movimento ecumenico, nato nel 1910 con la Conferenza missionaria di Edimburgo, e rafforzatosi negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, era malvisto da Pio XI: «Se le Chiese separate vogliono l’unità – diceva in sostanza – hanno una sola strada: “Tornare a Roma!”». E quando, nel dopoguerra, ad Amsterdam nel 1948 nacque il Cec, anche Pio XII si distanziò solo un pochino dal predecessore. A cambiare radicalmente la situazione furono Giovanni XXIII e il Vaticano II; dopo il Concilio si avviò una molteplice collaborazione; si ipotizzò perfino che la Chiesa cattolica romana si facesse membro del Cec; nel frattempo, dodici teologi cattolici entrarono a pieno titolo in Fede e costituzione, l’organismo, composto da centoventi persone, che affronta temi teologici e offre i suoi risultati alle Chiese, che rimangono libere di recepirli o no.
In tale contesto si pose il viaggio di Paolo VI, il 10 giugno 1969, che si presentò così: «Il nostro nome è Pietro. E la Scrittura ci dice quale significato Cristo ha voluto attribuire a questo nome, quali doveri esso Ci impose: le responsabilità dell’apostolo e dei suoi successori». Poi, il 12 giugno ’84 sarà Giovanni Paolo II a visitare il Cec, là affermando: «Nonostante le miserie morali che nel corso della storia hanno contraddistinto la vita dei suoi membri e persino quella dei suoi responsabili, essa [la Chiesa cattolica] è convinta di aver conservato nel ministero del vescovo di Roma, in piena fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei padri, il polo visibile dell’unità e la garanzia di questa… Questa è la nostra convinzione di cattolici, e noi sappiamo che la nostra fedeltà a Cristo non ci consente di rinunciarvi».
Francesco, da parte sua, sapeva bene, così come i suoi interlocutori ortodossi, anglicani e protestanti di varie denominazioni, che il tema dell’autorità del vescovo di Roma nella ekklesìa, insomma il papato, così come si è storicamente sviluppato, è uno degli ostacoli maggiori a una vera riconciliazione tra Roma e le altre Chiese (quelle raccolte nel Cec sono 349).
D’altronde forse il papa ritiene che quell’argomento, tosto, più che da dialoghi teologici – pur importanti, come quelli in atto dal 1980 con l’Ortodossia – verrà avviato a soluzione da una nuova prassi della Chiesa di Roma «che presiede alla carità», come affermava Ignazio di Antiochia nel secondo secolo. La sera del 13 marzo 2013, quando Francesco fu eletto, egli alla folla convenuta in piazza san Pietro si presentò come «vescovo a Roma… la Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese». L’onus probandi di “se” e “come” ciò sia attuato, dunque, spetta a quel vescovo.
Francesco ha anche ricordato “l’ecumenismo del sangue”, i tanti cristiani che, in Medio Oriente, subiscono violenze perché cristiani. È lo stesso tema che papa e capi delle Chiese di quell’area affrontano a Bari, il 7 luglio.
Ma, tornando a Ginevra, non c’è solo il papato che divide le Chiese da Roma: esse stesse, ad esempio, divergono sul giudizio etico sul fine-vita, eutanasia compresa; oppure sulle donne in tutti i ministeri: scelta accolta da quasi tutte le Chiese legate alla Riforma, ma negata dall’Ortodossia, oltre che dal Cattolicesimo.
E, a occhio nudo, sembra assai arduo che, entro la metà del XXI secolo, su questi nodi si arrivi a un consenso.