di Gaetano De Monte. Giornalista, Mediterrenean Hope – programma migranti e rifugiati della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei)
Torino. Nazem ha 34 anni, e fino al 2011 ha vissuto a Homs, in Siria. «Nel mio paese ero impiegato come ingegnere. Poi, quando è scoppiata la guerra, le compagnie straniere per cui lavoravo sono scappate. A causa dei pericoli che correvamo, anche io e mia moglie siamo stati costretti ad andare via dalla Siria, intraprendendo un lungo viaggio». Racconta Nazem: «Siamo cristiani ortodossi, ma non siamo fuggiti per motivi religiosi. Temevo, piuttosto, di essere reclutato forzatamente da una delle parti in conflitto, soprattutto, in virtù della mia giovane età». Dice l’uomo: «Siamo andati prima in Nigeria, paese in cui ho lavorato per tre anni, sempre come ingegnere, poi, sono partito per il Libano, dove ho vissuto in un campo profughi per qualche tempo. Come me, in questi ultimi sette anni, quasi due milioni di siriani hanno vissuto lì». E ancora, «a un certo punto, però, ci siamo sentiti quasi intrappolati in Libano. Infatti, senza il permesso di soggiorno, io e mia moglie non potevamo lavorare legalmente. Ma nemmeno più uscire dal paese per rientrare in Siria».
Temevo, piuttosto, di essere reclutato forzatamente da una delle parti in conflitto, soprattutto, in virtù della mia giovane età.
Così, questa coppia di giovani sposi, Nazem e Waad, ingegnere, lui, maestra d’asilo, lei, avevano davanti a sé una sola scelta: raggiungere l’Europa; rischiando la vita, a terra, attraverso la rotta balcanica, oppure sfidando il mare, su imbarcazioni di fortuna. È la stessa modalità di viaggio verso il continente europeo che aveva intrapreso nel 2015 il fratello di Nazem; è lo stesso, identico strumento adottato per viaggiare da milioni di persone che ogni anno fuggono da guerre, miserie e persecuzioni (sono oltre sessanta milioni, in tutto il mondo, secondo quanto raccontano gli ultimi dati Onu).
«Anche il nostro destino era quello di salire su una barca. E invece, dobbiamo ringraziare Dio che ha aperto davanti a noi una strada alternativa, consentendoci di arrivare in Europa in poche ore, viaggiando in sicurezza e dignità». L’alternativa ai viaggi della morte, a cui fa riferimento Nazem, si chiama corridoi umanitari, ed è l’iniziativa nata dalla collaborazione ecumenica tra protestanti e cattolici, cioè, tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, la Tavola valdese, e la Comunità di Sant’Egidio, le organizzazioni che hanno sottoscritto il 15 dicembre del 2015 un protocollo di intesa con i Ministeri degli Esteri e degli Interni (poi rinnovato nel 2017) permettendo in questo modo a duemila profughi “residenti” nei campi profughi del Libano di raggiungere l’Europa, attraverso vie legali e sicure, per poter esercitare il proprio diritto d’asilo.
Salire in cattedra, Nazem e gli altri. Una volta in Italia, i beneficiari sono presi in carico dai promotori del progetto. Per la parte evangelica l’accoglienza è quasi interamente gestita dalla Commissione sinodale per la diaconia (CSD) che accompagna e sostiene i beneficiari in un percorso di integrazione lavorativo, scolastico e sanitario, garantendo, inoltre, la tutela socio-legale, verso il raggiungimento di una graduale autonomia. «Nazem è arrivato in Italia a luglio del 2016 assieme a sua moglie Waad. In Italia li abbiamo supportati nel riconoscimento dei titoli di studio e attivando dei tirocini formativi che sono poi diventati dei contratti di lavoro, lui come tecnico specializzato in una ditta che si occupa di termoidraulica, e lei come impiegata presso un asilo nido», conferma Tatiana Manfredi, operatrice della Diaconia Valdese di Torino, che rivela: «Ora Nazem è persino salito in cattedra, nel senso che ha vinto di recente un concorso come lettore all’università di Torino, e così siederà in cattedra, appunto, sostenendo gli studenti dell’ateneo piemontese nell’apprendimento della lingua araba». Anche Ahmad vive a Torino. Era fuggito due anni fa dalla Siria, insieme alla moglie, per curare la figlia di tre anni affetta da una malattia rara. Non sapeva né leggere, né scrivere, perché sin da bambino aveva sempre e soltanto lavorato, come meccanico. Ora, grazie alla sua forza di volontà, e al sostegno offerto dalla Diaconia Valdese, ha già conseguito la licenza media, e, in Italia, lavora in un’officina meccanica.
Ora Nazem è persino salito in cattedra.
Sempre a Torino, ad un certo punto, ad un altro rifugiato siriano, Jamal, e alla sua famiglia, nessuno voleva affittare una casa. Fino a quando il caso di razzismo non è stato denunciato sui giornali; così, l’uomo ha potuto raccontare che, in soli due anni, con fondi propri, e con il sostegno della Csd, aveva aperto tre ristoranti, due a Torino e uno a Biella. Desideri che diventano realtà, quelli della famiglia di Jamal, raccontati dalla giornalista Marta Cosentino nel film Portami via. Sogni che diventano reali grazie ai corridoi umanitari, come quelli di Yasser,che ora frequenta il corso di laurea magistrale in ingegneria informatica all’Università di Genova; o come quelli di Mirvat, giovane donna siriana a cui la guerra aveva distrutto la casa due anni fa, costringendola ad interrompere gli studi universitari in Siria, salvo, poi, proseguirli in Italia, all’Università di Ferrara, ateneo che attualmente frequenta grazie a una borsa di studio.
Corridoi umanitari: uno strumento per fermare le morti in mare.
Roma. «I corridoi umanitari sono, attualmente, una delle poche modalità di ingresso legale e sicura per i migranti in Italia», dice Federica Brizi, la responsabile per l’accoglienza del progetto pilota dei corridoi umanitari, parlando dagli uffici romani di Mediterranean hope, il programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Brizis nocciola dati, cifre, e spiega: «attraverso questo strumento sono arrivate finora in Italia 1236 persone, di cui 497 minori. Tra questi, 17 frequentano l’università, 21 corsi professionali, 107 hanno un contratto di lavoro, 38 sono quelli che hanno un tirocinio in un’azienda, mentre 376 sono i bambini che frequentano la scuola materna».
Questa è una chiesa che accoglie. Cita il titolo del Manifesto per l’accoglienza, il documento approvato l’8 agosto 2018 dal Consiglio della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), il presidente Luca Maria Negro, e dice: «Oltre che impegnati a garantire corridoi umanitari a favore dei richiedenti asilo in modo che possano arrivare in Europa in sicurezza e legalmente, altrettanto ecumenicamente, e nel rispetto delle normative europee, ci opponiamo alle politiche di chiusura delle frontiere, di respingimento e di riduzione delle garanzie di protezione internazionale dei richiedenti asilo». «In questo senso», conclude il presidente della Fcei, «a tutti, ancor di più a chi ha responsabilità istituzionali, chiediamo di adottare un linguaggio rispettoso della dignità dei migranti e di contrastare con gesti e azioni concrete atteggiamenti xenofobi e razzisti».
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Refugees welcome here. No border, no nation.
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