Di Piera Egidi Bouchard, giornalista
Perché mi è così difficile parlare della tragedia dei migranti, che coinvolge ormai in particolare il nostro Paese, ma l’Europa tutta da anni ed anni? È un senso di umiliazione impotente, quello che provo. Così riflettevo, di fronte alla domanda provocatoria di un vecchio pastore e maestro: «E noi, non diciamo nulla?». Vilmente avevo dirottato mentalmente la legittimità della risposta alle nostre istituzioni, ai nostri dirigenti, ai responsabili della diaconia, ai pastori con cura di comunità, ai nostri teologi. Ma, dopo aver saputo la notizia che le bambine e bambini ammassati alla frontiera di Ventimiglia – arrivati senza genitori o perché li hanno persi nel gran cimitero del Mediterraneo, o perché sono stati imbarcati così, da soli, in un folle viaggio della speranza, per salvare almeno loro dalla guerra e dalla fame – si prostituiscono per raccattare i soldi con cui pagare i passeur e raggiungere in Francia, chissà, parenti o comunità che li possano aiutare, ho sentito che la domanda non riguarda solo la coraggiosa denuncia di “Save the Children” ma ciascuno, ciascuna di noi. Non è un dramma, è una grande tragedia, qualcosa che segna un’epoca, come un’epoca è stata segnata dalla lotta allo schiavismo, e un’altra epoca dalla battaglia per i diritti civili. Solo che non abbiamo le grandi voci profetiche di Harriette Beecher Stowe con il suo La capanna dello zio Tom o di un Martin Luther King a guidarci nella presa di coscienza di questo immane problema.
Perché scappa questa gente disposta a tutto, disperata, che si fa a piedi chilometri e chilometri nei deserti, che soffre sete, fame e botte? Non scappano mica per avventura o per turismo, scappano perché ci sono le bombe, scappano perché ci sono le guerre di tutti contro tutti. Fanno quello che i nostri genitori hanno fatto sotto i bombardamenti della guerra mondiale, lasciando ogni cosa, portandosi dietro solo i vecchi e i bambini, o quello che gli ebrei disperati hanno fatto cercando rifugio dove potevano, nascosti nelle valli valdesi, nelle case pastorali, nei conventi, o cercando aiuto nella Svizzera neutrale o oltreoceano. Non dimentichiamo la storia, e come evangelici sappiamo quanto hanno dovuto soffrire i nostri avi nelle persecuzioni, nelle guerre di religione che hanno insanguinato per secoli l’Europa. Forse abbiamo dimenticato, perché la tanto criticata Europa è da oltre settant’anni in pace?
E riguardo ai cosiddetti “migranti economici”, forse abbiamo dimenticato i milioni di italiani emigrati a cercar lavoro, tre milioni nella sola Argentina, ma anche in Germania, in Francia, in Svizzera, in tutta l’America, e anche gli evangelici delle nostre Valli valdesi costretti ad emigrare per carestie e fame, in Uruguay, Argentina e Brasile? Ho letto recentemente pagine di Sull’Oceano, in cui la grande penna di Edmondo De Amicis racconta le traversie dei nostri italiani imbarcati in ben 1500 su un piroscafo dove anche lui viaggiava, nel 1884, per l’Argentina, citate in un prezioso articolo di Bernardo Valli su L’Espresso: «La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani, per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile passavano portando quasi tutti sacchi e valigie di ogni forma alla mano e sul capo. Delle donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite,molti erano scalzi e portavano le scarpe appese al collo».
E anche nel secondo dopoguerra ci sono state migrazioni interne al nostro paese, e quelli che arrivavano dal Sud nelle grandi città industriali non erano i ricchi borghesi nelle loro ville e professioni, erano i “cafoni”, analfabeti, affamati, che arrivavano con le valigie di cartone a lavorare alle presse o negli altiforni, affittando a turno i “letti ad ore” nelle soffitte, perché «non si affitta ai meridionali».
Abbiamo accettato e integrato queste masse, abbiamo visto crescere i loro figli e le loro famiglie di seconda e terza generazione, li abbiamo visti studiare e trovare lavoro, e anche impiego. Eppure adesso sentiamo dire ogni genere di parole offensive e discriminatorie. Certo, i problemi ci sono, eccome, e grandissimi, ma bisogna affrontarli con umiltà e pragmatismo.
Siamo noi, paesi sviluppati, che produciamo e vendiamo armi, che aizziamo l’una contro l’altra le diverse etnie, che vogliamo mantenere il controllo delle materie prime di quel continente ricchissimo che è l’Africa, continuando nei secoli quella depredazione coloniale di cui siamo colpevoli, perché poi i popoli muoiono di fame e di guerre. Certo che un intero continente non si può travasare in un altro, certo che bisogna provvedere con accordi internazionali dei governi e un programma di aiuti in loco. E devono cessare le guerre. È responsabilità delle chiese una gigantesca, epocale confessione di peccato, che ci faccia agire con una rinnovata umiltà ma con determinazione. Certo, questo silenzio che ho provato è il senso di smarrimento del credente di fronte a tanto problema. Perché in ciascuno di noi c’è il bene e c’è il male, e ciascuno di noi può lasciarsi andare ad aizzare odi e rancori. Ma bisogna lavorare anche su se stessi, sui propri sentimenti e capacità. Non stanchiamoci di operare per la concordia, di parlare, raccontare, far ragionare le persone, non scoraggiamoci, non giriamo la testa dall’altra parte.