di Bruna Peyrot. Studiosa di storia orale, specializzata in ricerche su memoria e identità protestante
Fino al 3 novembre presso la Galleria d’arte Filippo Scroppo di Torre Pellice ci sarà un evento speciale: per la prima volta dopo più di quattro secoli, le Istruzioni militari di Giosuè Gianavello saranno visibili al pubblico. L’Esposizione, per un mese, ospiterà anche un’altra trentina di documenti dell’Archivio di Stato di Torino che ne ha permesso il trasporto nella terra che li aveva ispirati. Giosuè Gianavello (1617 – 1690) è un piccolo proprietario terriero della val Pellice, nelle Valli valdesi del Piemonte occidentale. Con le sue bande di resistenti difese le comunità valdesi che il Duca di Savoia, Carlo Emanuele II, con preti e frati al seguito, voleva riportare sulla retta via.
Organizzò una costante guerriglia per una decina d’anni finché fu esiliato dalla sua stessa gente come prezzo per ottenere la pace dopo cento anni di persecuzioni. Finì la sua vita a gestire un’osteria sulla piazza principale di Ginevra, da dove scrisse ancora le Istruzioni militari per i confratelli che torneranno in patria, guidati da Enrico Arnaud nel 1689, con un’impresa militare, finanziata dal sovrano olandese Guglielmo III d’Orange, che prese il nome di “Glorioso Rimpatrio”.
Sono dodici fino a oggi i manoscritti conosciuti delle Istruzioni: due in tedesco, otto in francese, due in italiano, giacenti presso gli Archivi di Zurigo, Berna, Parigi e Torino. A Torre Pellice saranno esposti questi ultimi. Le Istruzioni sono due fogli scritti fittamente, piegati in quattro, proprio per trovar posto nel taschino della giubba dei valdesi e degli ugonotti in marcia nel 1689, ai quali furono destinate. Esse possono essere studiate da più punti di vista: militare (è il primo manuale europeo che teorizza la guerriglia), teologico (contengono appelli all’unità e al perdono, nonché al senso di peccato per dover essere in guerra) e anche biografico, perché contengono tutto il sapere di Gianavello, dalla natura delle Valli, con le loro rocce, ponti, barriere, alture ecc. alla natura umana, sul comportamento degli uomini invitati a tenere l’unione fra loro. Nelle Istruzioni si ritrova la vita com’è, non un’utopia irraggiungibile, un’esperienza di vita e di fedeltà alla propria causa che Gianavello, ormai vecchio, desidera consegnare a chi può proseguire la sua opera e si accinge a realizzare il suo sogno, mai dimenticato, di tornare nella propria terra.
Gianavello fu narrato dalla tradizione orale e scritta delle Valli valdesi. Soprattutto divenne icona di resistenza, tanto che ancora al tempo del nazifascismo i partigiani ne ricordavano le azioni sulla stessa terra che ora toccava a loro difendere.
Gianavello è, dunque, profondamente radicato nell’identità collettiva di queste popolazioni alpine alle quali il progetto intende offrire un’occasione in più di memoria e divulgazione storica, che tenga conto sia della complessità delle vicende del XVII secolo, “il secolo di ferro” che vide il territorio delle Valli valdesi conteso fra Spagna, Francia e Savoia, sia delle dinamiche interne alle comunità valdesi, in dialettica fra una strategia di resistenza armata e una di continua mediazione con i poteri locali e regionali.
Gianavello fa parte di un progetto culturale per ridare a un territorio il significato di terra.
I due termini linguistici, infatti, non hanno lo stesso significato. Dire territorio, categoria sociologica di lettura della realtà, significa riferirsi a dati statistici, linee di tendenza, e, per quanto riguarda le Valli valdesi, affidarsi a una rappresentazione “perdente”, fatta di carenze, diminuzioni, perdite umane a causa dello spopolamento e della secolarizzazione. Dire, invece, terra significa evocare dimensioni storiche e affettive.
La “terra” suscita emozioni, esplicita un legame per chi qui è nato o chi qui ha scelto di abitare. Le Valli valdesi sono una metafora per il protestantesimo italiano perché sempre c’è bisogno di un punctum che catalizzi l’attenzione, raccolga sentimenti e visioni del mondo, riassuma ciò che si è o si propone di essere, in altre parole, un luogo che sia memoria e vita futura allo stesso tempo.
La biografia di Gianavello fa parte di tutto questo. Era una persona normale che si è trovata a vivere tempi eroici. Era una persona che ha mantenuto sempre una profonda coerenza fra etica e azione. Divenne bandito, sia nel senso di fuorilegge (quattro bandi ducali lo colpirono), sia nel senso che fu messo in minoranza dalla sua stessa comunità che in una drammatica Assemblea di capifamiglia (Pinasca, 1664) votò contro la sua linea di resistenza armata a oltranza e accetto l’esilio per lui e altri 44 banditi, così come richiesto dal Duca Carlo Emanuele II. Egli era cresciuto in un’epoca in cui le comunità valdesi avevano sempre più marcato la loro identità protestante, ispirate dalla Ginevra calvinista e in cui i conflitti si risolvevano con le armi. I valdesi non furono pressoché mai non violenti, almeno da quando si sono stanzialmente costituiti nelle Valli valdesi del Piemonte, uscendo alla luce del sole nel praticare la loro fede. Fin dal 1560 almeno, sempre si opposero ai sovrani sabaudi, alleati ora con la Spagna ora con la Francia. Gianavello ben compendia anche nella sua biografia personale questa lunga linea di resistenza di Davide contro Golia, per cui presenta tutti i caratteri per essere ricordato dalla cultura popolare. Per quanto riguarda la cultura dotto non si può dire altrettanto. Il periodo della sua guerriglia dei banditi è spesso glissato dalla storiografia ufficiale valdese. Egli fu scomodo soprattutto negli ultimi anni settanta, quando si riscoprirono contemporaneamente il valdismo medievale (L’Editrice Claudiana pubblico la Storia dei valdesi 1 di Amedeo Molnar) e il pacifismo politico di movimenti e gruppi della vasta galassia del “Movimento per la pace”.
Ma la storia si sedimenta negli inconsci collettivi. Anche se non si narra più, rimane a covare sotto le ceneri, si trasmette sotto forma di emozioni, folcrorismi e recuperi improvvisi e scatenanti. Per questo è importante avere occasioni di rielaborazione, per capire i nostri comportamenti odierni, per portare questi sottofondi a consapevolezze. Senza il senso della profondità storica delle cose, si perde la strada. Le radici servono per far crescere l’albero… i rami possono andare dove la luce li porta, ma le radici devono stare salde al proprio terreno. Parlare di storia nelle Valli valdesi del Piemonte è oltre modo importante per rafforzare un’identità un po’ dimenticata, o meglio, non considerata importante in un mondo che richiede altri tipi di impegni sociali, più urgenti e necessari. Ma l’urgenza del presente non può entrare in alternativa al bisogno di capire i nostri passati. Cancellare le memorie, o recuperarle, è parte di uno scontro di potere che non è solo fuori di noi, ma dentro di noi. Gianavello, per le Valli valdesi, ma non solo, è un’esca per capire tutta questa vasta complessità che opera nella storia, in ogni angolo di mondo.