di Sabika Shah Povia. Giornalista.
È una donna, è cristiana e, per via di una condanna ingiusta, ha passato otto anni nel braccio della morte, isolata, lontana dalla sua famiglia, nella cella di un carcere pakistano. Tutto il mondo ha festeggiato l’assoluzione di Asia Bibi, tranne il Pakistan, il Paese che l’aveva privata della sua libertà e che si è visto privare della propria nel momento in cui il presidente della Corte Suprema Mian Saqib Nisar ha letto il verdetto di assoluzione alle 9:20 del mattino, il 31 ottobre 2018.
Da quel momento in poi, per tre giorni, l’intero Paese è stato paralizzato dai militanti del partito Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP), che hanno creato disordini attraverso violente proteste di piazza, danneggiando persone, attività commerciali e proprietà private. Il pregiudizio del mondo nei confronti del Pakistan è stato confermato: il Pakistan non è altro che un Paese di estremisti e fanatici religiosi come quelli che sono scesi in piazza per manifestare contro la decisione della Corte Suprema. Sono loro il volto di questo Paese. Loro, che rappresentano il 4% degli elettori che hanno votato alle elezioni generali di luglio, uomini con in testa la taqiyah, in una mano striscioni con la scritta “Hang Asia” (impiccate Asia) e nell’altra immagini della donna con un cappio intorno al collo.
Eppure non è così. È vero che in un Paese con una popolazione di oltre 200 milioni di persone anche solo il 4% degli elettori significa 2 milioni di persone che votano per il partito estremista TLP. Sono tantissime, ma ce ne sono altre 48 milioni che non l’hanno fatto. E allora perché non abbiamo visto immagini di festa per le vie di Lahore e Islamabad? Perché i moderati e i liberali non sono scesi in piazza per una contro-protesta o semplicemente per mostrare il proprio supporto ai tre giudici coraggiosi che hanno disposto il rilascio di Asia Bibi? Per dire al mondo che sono loro la maggioranza, il vero volto del Paese?
La risposta è tanto semplice quanto preoccupante: le persone con punti di vista diversi, più inclusivi e tolleranti, specie nei confronti delle minoranze religiose, hanno troppa paura di ripercussioni o, nel caso delle leggi sulla blasfemia, sono troppo sensibili alla questione per avere un’opinione decisa.
In Pakistan, dagli anni ottanta in poi, le leggi sulla blasfemia sono state modificate per includere una potenziale condanna a morte per chiunque insulti l’Islam. Ma, nonostante una punizione così severa, le prove necessarie per poter condannare qualcuno si prestano a facili strumentalizzazioni e abusi spesso perpetrati per perseguitare le minoranze religiose. L’accusatore può infatti rifiutarsi di ripetere la presunta offesa in tribunale per paura di poter essere a sua volta accusato di blasfemia. Inoltre, la legge non stabilisce alcun criterio per le prove da presentare e non tiene conto del dolo.
Verrebbe naturale pensare che il problema si possa risolvere con, se non l’abolizione, almeno una modifica delle leggi, ma la questione è più complessa di così. Dal 1990, sono almeno sessanta le persone che sono state uccise al di fuori del sistema giudiziario pakistano nei casi relativi alla blasfemia, secondo il Centro di Ricerca e Studi di Sicurezza (CRSS) di Islamabad. Oltre a presunti blasfemi, l’elenco comprende avvocati e politici che hanno criticato o chiesto emendamenti alle leggi, sottolineando l’inefficienza delle regole attuali.
Tra i politici assassinati vi è anche l’ex governatore del Punjab Salman Taseer, ucciso nel 2011 con 28 colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata dalla sua guardia del corpo Mumtaz Qadri. Taseer aveva espresso la sua preoccupazione riguardo agli abusi delle leggi di blasfemia e sosteneva che era arrivato il momento di modificarle. È bastato questo per ucciderlo. Qadri è stato condannato a morte per l’omicidio e impiccato il 29 febbraio 2016, in un tentativo di limitare la ricorrenza annuale dell’anniversario della sua morte da parte delle autorità. A poco è servito; ogni anno sono migliaia le persone che lo ricordano proprio in quei giorni, recandosi al mausoleo costruito dalla famiglia per questo sedicente martire.
In questo contesto, giudici come quelli che hanno condannato Asia Bibi a passare otto anni nel braccio della morte, hanno spesso paura di assolvere gli imputati a causa della minaccia di violenza e ritorsioni. Quindi nonostante le prove spesso insufficienti e discutibili, sono centinaia le persone che ancora oggi si trovano in carcere ingiustamente, molte delle quali condannate a morte.
Asia non è più in carcere, ma non per questo è libera. Si trova ancora in Pakistan, in una località segreta, sotto protezione costante. Non ha ancora rivisto i suoi figli e il marito, che si sono nascosti a loro volta per sfuggire alla violenza di una folla inferocita di estremisti, ossessionata dal punire i blasfemi e dall’idea che solo la loro morte possa rappresentare giustizia. L’intera famiglia ha chiesto aiuto a diversi Paesi occidentali, dal Canada all’Italia e il Regno Unito. Tutti hanno espresso preoccupazione per la loro condizione e si son detti disposti a fare qualcosa.
Anche se nel concreto ancora non si è mosso nulla, si sta iniziando a discutere sulla possibilità che Asia Bibi possa presto lasciare il Pakistan e sulle conseguenze che questo avrebbe sul Paese. Si teme che a livello nazionale possano aumentare drasticamente le tensioni tra musulmani e cristiani, ma anche tra i sostenitori del TLP e il governo. A livello internazionale, invece, molti pakistani si preoccupano che, una volta al sicuro, Asia Bibi possa essere strumentalizzata per rafforzare la narrativa anti-Pakistan già diffusa all’estero.
Questo è molto probabile visto che difficilmente Asia Bibi riuscirà a spendere parole di simpatia o affetto verso il Paese in cui è sempre stata discriminata per la sua identità religiosa e dove ha passato otto anni con una condanna di morte sulla testa. Ma finché non è al sicuro con la sua famiglia, non deve essere questa la nostra priorità.
Se il tema della blasfemia non fosse un argomento così delicato, una volta scagionata Asia Bibi non sarebbe stata costretta a lasciare il Pakistan. Magari sarebbe potuta diventare un’attivista per i diritti delle minoranze e avrebbe contribuito a rendere il Pakistan un luogo più giusto e più sicuro. Ma non lo sapremo mai, perché per rendere possibile tutto questo, il governo dovrebbe essere in grado, prima di tutto, di garantire la sua sicurezza. E questo non è possibile in un Paese in cui una guardia del corpo può sparare alla persona che dovrebbe proteggere e poi essere acclamato da eroe, come è successo con Qadri. È infatti intorno alla controversa figura di questo personaggio che è stato costruito il partito TLP, che ha fatto della battaglia a favore delle leggi di blasfemia la sua bandiera.
Questi estremisti che incoraggiano a reagire alla blasfemia con la violenza e l’oppressione non hanno ancora capito che, non solo il loro fanatismo non trova alcun riscontro nei testi sacri islamici, ma che sono loro, non i presunti blasfemi, a diffamare l’Islam, presentandolo come una religione anacronistica che lascia poco spazio per un dibattito civile.