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Contro l’odio e la violenza, in ogni loro forma

by redazione

intervista a Liliana Segre. Sopravvissuta alla Shoah e testimone dei campi di concentramento nazisti. Dal 19 gennaio 2018 è senatrice a vita

[intervista a cura di Paolo Emilio Landi]

Dopo anni dedicati alla testimonianza nelle scuole, confrontandosi con migliaia di studenti, Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita lo scorso 19 gennaio dal Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella. Nel 1938, quando furono promulgate le “Leggi razziali” dal regime fascista la Segre aveva solo 8 anni. Deportata ad Auschwitz, è una dei 25 sopravvissuti tra i 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono internati nel campo di concentramento. Di recente ha presentato in Senato un Ddl (di cui è prima firmataria) per l’istituzione di una Commissione parlamentare di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.

Parliamo di “hate speech”: Lei è stata vittima di insulti, affermazioni offensive. Come ha reagito?
Ma vede, io sono fatta così: il web non lo guardo. Possono esserci complimenti, frasi carine, e anche insulti, non li conosco.

E quindi è come se non ci fossero?
Esatto.

Però vuole proporre su questo tema un disegno di legge.
Ho proposto un Disegno di legge, perché al di là di quel che capita a me, che ora come senatrice attiro messaggi di odio, di disgusto e non so che altro… Dicevo, al di là di questo io ho visto il male assoluto, ho visto l’odio assoluto, e per tutta la mia vita l’ho sempre combattuto. Oggi con grande dolore, da nonna, mi preoccupo dei miei nipoti, della loro vita futura, di quando non ci sarà più.
Questi discorsi di odio si sono propagati anche a livelli bassissimi… in macchina nel traffico, durante le sedute condominiali. Ho in mente anche questi contesti quotidiani quando parlo di discorso d’odio.

Che cosa fare dunque per opporsi a questa rabbia?
Ogni cittadino può fare qualcosa, la coscienza di ognuno può fare qualcosa. Essendo io stata vittima, in pratica per tutta la mia vita, di odio razziale sino a vivere lo sterminio della mia famiglia – la cui unica colpa era quella di essere nata – oggi che mi ritrovo a questa età avanzata ad essere in Senato, mi sono chiesta: cosa posso fare come senatrice a vita? La risposta l’ho subito trovata: quest’odio che si è presentato nelle forme peggiori, persino tra i bambini, i ragazzini – il bullismo; ma anche tra le famiglie, che si arrabbiano col vicino di casa per una bicicletta nel condominio, o con la maestra per un brutto voto dato al proprio figlio… C’è voglia di far vedere all’altro che si è più forti, e trovo queste forme di rabbia e odio preoccupanti per la nostra comunità. E questo porta a delle conseguenze gravissime. L’ho già visto, sulla mia pelle.

Cosa prevede il Disegno di legge?
Di battersi contro qualunque forma di intolleranza, violenza, anche solo verbale, che può essere gravissima. Prevede che si istituisca una commissione di controllo contro ogni forma di violenza e discriminazione. È un tentativo, certo non risolutivo. Una voce però che dica basta in maniera chiara ai discorsi d’odio e alla violenza diffusa. Mi sembra che la mia coscienza me la imponga.

Nel settembre del 1938 suo padre la informa che non sarebbe potuta tornare a scuola. Si ricorda?
Compivo otto anni quel 10 di settembre, e ricordo che faceva caldo. Andavo già a scuola, avevo fatto la prima e la seconda elementare, e ricordo la maestra, le amiche che avevo… I bambini di allora non erano informati come lo sono ora, e per farvi solo un esempio, io non sapevo neanche di essere ebrea! Sono come Primo Levi che racconta di aver saputo di essere ebreo con le leggi razziali. Perché le  nostre famiglie erano laiche, non religiose, assolutamente integrate… Mio zio era addirittura fascista!
Fu quindi come una doccia gelata. Ricordo gli occhi di mio padre, che mi comunicava che a causa delle nuove leggi non sarei potuta andare in terza elementare, perché ero stata espulsa. La parola “espulsa” mi colpì fortemente. Per lo scolaro l’espulsione è una cosa gravissima: prima c’è l’ammonizione, si chiamano i genitori… Perché dunque? Che cosa ho fatto? – mi chiedevo. Ero una bambina qualunque! Quanto fu difficile anche per gli adulti spiegarmi il perché fui espulsa! Quando Mattarella quest’anno mi ha nominato senatrice mi ha chiesto che cosa ho pensato durante la nomina. Ho risposto: «Presidente, ho 88 anni, 80anni fa ero una bambina espulsa dalla scuola. Io sono rimasta sempre quella bambina. A quella bambina vengono aperte ora le porte del Senato». È stato per me commuovente.

Lei quando racconta di Auschwitz, dice di aver trovato la forza dentro di Lei. Dove l’ha trovata?
Negli ultimi anni testimonio nelle scuole e parlo anche di forza. Mai con parole di odio…non ho mai parlato di odio e di vendetta. Tante volte mi succede uno sdoppiamento pericoloso nella mia testa. Sono talmente “nonna”, che divengo nonna di me stessa. Quando parlo di quella Liliana, quella di 13 anni, di 14 anni compiuti mentre ero ad Auschwitz, mi domando: come ha fatto quella ragazzina? Come è sopravvissuta passo dopo passo durante la marcia della morte? Come ha fatto a sopportare la selezione? Come ha fatto a guardare in faccia il male assoluto senza farsi contagiare? Come ha fatto da sola senza appoggiarsi mai a nessuno? Senza capire quello che stava succedendo… Senza sapere quel che avvaleva di così orribile, fino a quando sono arrivata lì, e ho visto e sentito.

Ho sentito l’odore di carne brucata, e ho visto gli scheletri camminare. Ho visto il male, fatto da persone uguali a noi. Non erano pazzi. Perché sarebbe più comodo ritenerli tali… Ma i folli si possono curare. No, non erano mostri, o alieni. Erano persone come noi. Io volevo vivere. È stato certamente il caso a tenermi in vita, perché potevo morire in qualunque momento della mia prigionia.

Ho deciso fin da subito, sola come ero: «voglio vivere, voglio vivere!». Cercavo di estraniarmi da ciò che vivevo e vedevo. Per un anno e mezzo mi sono trovata vittima dell’odio, del male assoluto, e viva per caso. Un giorno sono arrivati gli americani che distribuivano cioccolato e sigarette.
Eravamo su una strada nel nord della Germania, durante una “marcia della morte” –  centinaia di chilometri – ed ero ancora viva, stranamente.
I soldati tedeschi, che sino a quel momento avevano completo diritto di vita e di morte su tutti e tutte noi, ora si spogliano, restano in mutande per vestirsi con abiti civili, per tornare alle loro case. Il comandante di quell’ultimo campo era un tedesco elegantissimo: al contempo gelido, e aveva distribuito calci, pugni e nerbate a noi povere donne allo stremo delle forze. In quel momento si spogliava lì accanto a me, non mi vedeva neanche e non si accorgeva di chi io fossi. Allontanava il cane, gettava la divisa, e buttò via anche la pistola che cadde proprio accanto ai miei piedi.

Mi ero nutrita di odio e vendetta. La violenza che avevo visto attorno a me mi aveva segnata, e desideravo solo vendicarmi. In quel momento ho visto la possibilità della vendetta. «Prendo la pistola –  ho pensato – e lo uccido». Mi sembrava un giusto finale per tutto quello che avevo sofferto, visto e sentito.  Ma è stato solo un attimo, decisivo della mia vita. Ho subito capito che non avrei mai potuto uccidere qualcuno nella mia vita, per nessun motivo al mondo. Avevo scelto la vita, e la vita vince sulla morte. Da quel momento sono stata quella donna libera e di pace che sono adesso.

Come è stato il ritorno a casa, in Italia?
Ho aspettato quattro mesi in Germania, in luoghi allestiti dagli americani. Non solo per noi, che eravamo pochissimi, ma per i tanti soldati italiani che non avevano aderito a Salò. Tra i quali mio marito, che per questo girò sette campi di prigionia. C’erano 600mila italiani da portare in Italia, e finalmente anche io con Graziella Coen siamo riusciti a prendere una tradotta con i portelloni aperti, circondate da soldati che cantavano e che ebbero un rispetto straordinario per noi sopravvissute ai lager, tornammo in Italia. Avevo 14 anni, e non sapevo cosa avrei trovato. Immaginavo che mio padre non ce l’avesse fatta e sapevo che anche i miei nonni, molto ammalati, furono deportati. Arrivai fortunosamente a Milano e cercai la casa dove abitavo in affitto con la mia famiglia. Chiamati dal portinaio, arrivarono i miei nonni materni che si erano rifugiati a Roma, salvati e nascosti dalle suore, e mio zio che si era salvato in montagna coi partigiani.
Fu un incontro terribile. Loro si aspettavano di incontrare quella ragazzina educata e carina che avevano lasciato nel 1942, e trovarono invece questa ragazzona selvaggia, ferita, ingrassata – perché in quattro mesi avevo preso 10 chili al mese. Ero una ragazzona brutta, sciatta e maleducata. Ho visto tutto nei loro occhi. Erano persone buone che mi volevano bene e a cui io volevo bene. Ma io ero ferita, malata, direi per sempre, perché da Auschwitz non si guarisce. Ci sarebbe voluto uno psicologo fisso in casa, per me e per loro! Io volevo essere accettata così com’ero… Loro credevano che comprandomi i vestiti nuovi, le scarpe, la borsa, sarei guarita.

C’è stato un momento della sua vita in cui, dentro di sé, ha smesso di essere una persona che è stata ad Auschwitz?
Mai. Impossibile.

Lei ha aspettato 45 anni per parlare. Che cosa l’ha motivata ad uscire dal silenzio?
Non è che una mattina mi sono alzata e mi sono decisa ad essere una testimone. Non ho avuto la fortuna, come invece hanno fatto Primo Levi ed altri intellettuali, di trovare subito le parole necessarie per parlare e scrivere. Ma ho capito che senza questi mezzi nessuno avrebbe potuto ascoltarmi nel senso in cui avrei voluto io. Nel dopoguerra tutti avevano qualcosa da raccontare della guerra e delle sue sofferenze. C’era una specie di gara a chi aveva sofferto di più, per cui se io per caso mi lasciavo andare a raccontare – e allora si sapeva ancora poco dei lager – c’era subito qualcuno che diceva «Certo, ma anche noi abbiamo sofferto!». Quindi ho cominciato a tacere. E non mi sono mai pentita di questo silenzio, perché la gente allora non era preparata a certi discorsi, non li voleva sentire, ed io non potevo avere di fronte a me persone che non volevano ascoltare.

Ciononostante, dopo anni ho cominciato a pensare che non avevo fatto bene il mio dovere, perché pensavo che sarei stata una buona testimone e alcuni avvenimenti mi spronarono. Inizialmente un grave “esaurimento”, poi il mio contributo alla stesura de Il libro della memoria: gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945) di Liliana Picciotto e infine – e soprattutto – la nascita del mio primo nipote, Edoardo. Non solo io che dovevo essere sterminata ero viva per caso, non solo ero potuta diventare mamma tre volte: ora era nato anche un nipote. Questo avvenimento scioglieva il cuore da tente cose e mi aiutò a capire che potevo parlare anche ai miei “nipoti ideali” (così chiamo i ragazzi che incontro) senza parlare di odio e di vendetta, ma spronandoli alla vita, a cercare dentro la propria coscienza e a  scegliere il bene e non il male.

Lei è stata fortunata nell’incontro con suo marito, che in qualche modo ha condiviso con lei questo dolore.
Se non avessi avuto due fortune la mia vita sarebbe stata molto diversa. La prima fortuna è stata quella di volere rimettermi a studiare e allora per recuperare il tempo perduto mi sono iscritta al Liceo classico.
E proprio durante l’estate della III liceo, ero al mare con i miei ed avevo circa 18 anni, incontrai per caso un uomo di 28 anni che sarebbe diventato mio marito. Era un bell’uomo e mi piaceva molto, ma io non avevo nessuna dimestichezza con il flirt.
Lui vide il numero che avevo sul braccio – allora nessuno si tatuava – e visto che era stato in sette campi in Germania dopo che era stato arrestato, disarmato, in seguito all’8 settembre, mi disse:  «Io so cos’è questo numero. Ne ho visti altri in Germania. Tu sei una ragazza che ha sofferto molto». Tre giorni dopo eravamo insieme, semifidanzati, e non ci siamo più lasciati. Mi ha lasciato lui 10 anni fa perché e morto.

Lei ha parlato della difficoltà di raccontare, ma con quale occhio guardava quegli italiani che sono stati indifferenti?
Io sono profondamente italiana, quindi non giudico “gli italiani”. Io penso che la paura sia stata una grande maestra di morte, non di vita. Perché schierarsi coi perdenti è sempre molto difficile. In tutte le società la norma è seguire il carro dei vincitori e i perdenti vengono lasciati per strada. Ci sono stati degli italiani – amici della mia famiglia, cattolici – che mi hanno nascosta a costo della vita (perché si veniva fucilati se si nascondeva un ebreo) a cui sarò grata per sempre.
Poi abbiamo avuto una cameriera di nome Susanna che è stata quarantasette anni in casa nostra e che aveva studiato solo fino alla terza elementare. Dato che diventò proibito avere donne di servizio “ariane”, Susanna si tolse la divisa e continuò a stare con noi. Continuò ad essere amica della mia famiglia e seguì fino alla fine i miei nonni, fino al camion dove furono caricati dai tedeschi. Fu solo per caso che non venne caricata anche lei.

Come sempre accade, ci sono stati i buoni e i cattivi. E fra i buoni e cattivi c’è questa massa, tremenda, degli indifferenti.

[pubblicato su Confronti 11/2018]

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