di Paolo Naso. Coordinatore di Mediterranean Hope – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei), docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma
Puntualmente, come accade da 28 anni, a fine ottobre è uscito il Dossier statistico Immigrazione, edizione a cura del Centro studi e ricerche IDOS in partenariato con il Centro studi Confronti e con la collaborazione del’Unar (Ufficio nazionale antidiscrimazioni razziali), con il finanziamento dell’Otto per mille delle chiese metodiste e valdesi.
Quasi 500 pagine fitte di dati e tabelle, analisi e brevi commenti sul tema del giorno, quello che da anni detta e condiziona l’agenda politica dei governi europei, e quello rispetto al quale il Governo giallo-verde ha impresso una svolta brusca e netta: un tempo annoverata tra i paesi Ue “volenterosi” e impegnati a sperimentare forme nuove di integrazione e inclusione sociale – si pensi al Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati (Sprar) giudicata una best practice europea – oggi è capofila della politica della chiusura dei confini, dei respingimenti, delle espulsioni.
E così in pochi mesi l’Italia si è ritrovata più vicina a Polonia e Ungheria che a Francia e Germania: uno spostamento di alleanze che ci dà la misura di quanto il “fattore M” delle migrazioni condizioni la politica estera nazionale e non, come suggerisce la logica politica delle alleanze strategiche, il contrario.
Fermandoci ai primi dati generali del Dossier, balza subito all’occhio la differenza tra la consistenza numerica del fenomeno migratorio da una parte e, dall’altra, la percezione che ne abbiamo ascoltando TG e talk show che denunciano un’ “immigrazione incontrollata”, “sbarchi continui”, l’ “invasione multietnica”, un “esodo biblico”. Una fabbrica della paura e dell’ansia sociale che ha fatto breccia anche a sinistra, spingendo buona parte delle sue espressioni politiche a ricorrere leghisti e populisti sul terreno scivoloso della xenofobia.
I dati del dossier statistico
La realtà è un’altra: in Italia risiedono stabilmente poco più di 5,1 milioni di immigrati, pari all’8,5% della popolazione generale, un punto percentuale in meno rispetto alla media Ue, ma largamente al di sotto di quanto si registra in paesi come Germania (11,2%), Regno Unito (9,2%), Austria (15,2%), Belgio (11,9%), Irlanda (11,8%).
In Italia la popolazione immigrata aumenta di qualche decimo percentuale rispetto all’anno precedente ma nel quadro di un dato ormai stabilizzato e difficilmente reversibile: il calo demografico degli “italiani italiani” che, nonostante incentivi e campagne familistiche, continuano a sposarsi poco e a fare pochi figli, sempre meno di quei due a coppia che idealmente garantirebbero la stabilità demografica.
Ciò che una percezione sociale dell’immigrazione basata su paura e risentimento sociale non dice, è che questi 5,1 milioni di “nuovi italiani” costituiscono una solida risorsa alla nostra economia, sostengono in misura ormai decisiva il sistema previdenzile e coprono settori di lavoro essenziali ma ormai indesiderati o rifiutati dai nostri connazionali, nostri figli compresi: pensiamo all’incidenza di mano d’opera immigrata nel settore dei servizi, dell’agricoltura stagionale di bassa manovalanza, del lavoro domestico, dell’edilizia. “Integrazione subalterna”, è stata definita, per evidenziare che si tratta di persone che si sono radicate, hanno imparato la lingue e trovato un lavoro ma in un settore a basso contenuto di qualificazione e, soprattutto, a basso o bassissimo reddito.
Marginali e sottopagati, i lavoratori immigrati contribuiscono all’Irpef per 3,3 miliardi di euro che, sommati ad altre tasse e contributi, ammontano alla robusta cifra di 19,2 miliardi di euro.
Gli immigrati che hanno famiglia, nel breve periodo tendono ad adattarsi e a conformarsi alla dimensione familiare italiana, generano al massimo due figli a coppia che in genere frequentano con successo la scuola e iniziano a frequentare anche i licei. Sono i “figli dell’immigrazione”, che ormai costituiscono circa il 10% della popolazione scolarizzata.
L’identikit dell’immigrato in Italia
Giovane, qualificato, proveniente dall’Europa dell’Est, occupato, cristiano, sostanzialmente integrato. Per quanto diverso dal quello che immaginiamo è questo il profilo dell’immigrato che, in prevalenza, esce dal Rapporto IDOS Confronti: una risorsa sociale, un vettore che sostiene la piramide demografica e rafforza il pluralismo culturale e religioso. Un profilo assolutamente diverso da quello generalmente attribuito agli immigrati che si immaginano dequalificati, inattivi, africani e musulmani. Perché questa differenza e questa distanza tra reale e immaginario, documentato e percepito?
Azzardiamo una risposta. Per chi ha fatto del contrasto all’immigrazione il fulcro della sua azione politica, questa tipizzazione dell’immigrato – nero, musulmano, disoccupato, non integrato – è politicamente più remunerativa.
La continua confusione tra immigrati e richiedenti asilo è del tutto coerente con questo impianto. Gli sbarchi di disperati partiti dai porti della Libia sono visti e interpretati come un’invasione epica che andava fermata con ogni mezzo. E così è puntualmente accaduto, azzerando i dispositivi di soccorso in mare, criminalizzando le Ong, delegando alla Guardia costiera libica – secondo uno schema operativo che in nuce va però attribuito al Governo Gentiloni e al ministro Minniti – il compito di contrastare le immigrazioni irregolari dal Mediterraneo centrale e di effettuare quei “respingimenti di massa” la cui legalità solleva giustificati dubbi giuridici.
Osservando la scena dall’Italia, la strategia ha funzionato perché gli sbarchi sono letteralmente crollati (- 80% in pochi mesi); spostando il punto d’osservazione in Libia la situazione è ben diversa, e le testimonianze di coloro che fuggono dai campi confermano quanto emerge da inchieste e rapporti delle stesse Nazioni Unite: il paese non è sicuro, gli immigrati sono venduti da un trafficante all’altro come merci, le donne sono violentate, settori degli apparati militari sono collusi con la criminalità.
Inclusione sociale e lotta all’illegalità
Il Dossier registra i primi effetti del sisma politico del 4 marzo ma solo nei prossimi mesi potremo capire la portata dei cambiamenti in atto nelle politiche dell’immigrazione in Italia.
A fronte di una “foresta che cresce” in termini economici e sociali, la politica dell’immigrazione si concentra sull’albero che brucia, enfatizzando i temi dell’illegalità e dell’insicurezza.
Agire sul fronte della repressione dell’illegalità non è una scelta né progressista né conservatrice: è un dovere essenziale dello Stato a tutela del bene comune e della sicurezza dei soggetti più deboli e meno garantiti socialmente. Contrapporre o subordinare le esigenze della sicurezza a quelle dell’integrazione, però, è un errore grave e imperdonabile perché comporta un prezzo sociale altissimo. La riduzione delle misure di integrazione non produce sicurezza né coesione sociale. Semmai il contrario e chissà che gli impresari politici della xenofobia non scommettano esattamente su questo. Equivale ad alzare il rischio di illegalità diffuse.
[pubblicato su Confronti 11/2018]