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La guerra e la pace dopo Daesh

by Domenico Chirico

di Domenico Chirico, direttore dei programmi di Un ponte per…, operatore umanitario.

Nel 2014 l’Isis, che chiameremo con l’acronimo arabo Daesh per evitare termini stigmatizzanti, occupava ampie aree della Siria e dell’Iraq. Sono due storie diverse e complesse, ognuna con una sua declinazione territoriale. L’elemento in comune
sono le persone. Quelle fuggite, quelle rimaste simpatizzando o meno con il nuovo potere. Vittime e carnefici che cambiano in continuazione. Entrambe le città sono state liberate tra il 2016 ed il 2017.

In Iraq, Mosul è stata liberata a fine 2016. Grazie ai fondi dell’Otto per mille della Tavola valdese (Unione delle Chiese metodiste e valdesi) Un ponte per… è stata tra le prime Ong ad arrivare in città e nelle aree circostanti e a distribuire aiuti umanitari alla popolazione civile. Il progetto Darna, “la nostra casa”, portava stufe e kit igienici alle famiglie delle minoranze che rientravano nelle loro cittadine appena riprese dall’esercito iracheno. Cristiani, ezidi, turcomanni e molte altre minoranze che compongono il mosaico di civiltà iracheno rientravano dopo due anni e mezzo nelle loro case. Case che erano state occupate, saccheggiate se non distrutte da Daesh durante la guerra. Uno scenario desolante. Intere cittadine spazzate via. E poi lo sfregio dell’accanimento e della violenza etnica contro le minoranze. Luoghi sacri distrutti e chiese utilizzate come poligoni. La cattedrale di Qaraqosh, una delle più grandi enclave cristiane del Medio Oriente, incendiata e bucherellata in ogni suo angolo. La città di Bashiqa, nota per la produzione dell’olio di oliva da parte della comunità Ezida, rasa al suolo. Con gli oliveti bruciati e gli alberi tagliati. Per non far fiorire più nulla.

«Voi amate la vita, noi la morte» scrivevano i miliziani di Daesh sui muri.

In questo contesto sono rientrate comunque le persone e avevano bisogno di sostegno perché non c’era più nulla, neanche le istituzioni che potessero sostenerli. Ma era troppa la stanchezza di vivere ancora nei campi profughi dove erano state sfollate per anni. Era meglio una casa mezza distrutta che la tenda o il container del campo dove avevano mal vissuto gli ultimi anni. Ma il rientro non è stato per nulla semplice. Perché è stato evidente che i propri vicini di casa, nelle cittadine sunnite, erano rimasti lì ed avevano solidarizzato, a volte, con Daesh. Come nella guerra della ex-Jugoslavia i vicini di casa erano diventati gli aguzzini.

E a quel punto è ricominciato un difficilissimo percorso che riguarda tutti. Oltre la ricostruzione materiale cominciare a ragionare anche sulla ricostruzione dei tessuti di coesistenza. Migliaia di giovani hanno cominciato di nuovo a riversarsi nelle strade di Mosul e delle altre città, riprendendosi la vita che gli è stata strappata dalla guerra. All’Università di Mosul si sono iscritti nel 2017/2018 circa cinquantamila studenti, nonostante il campus sia stato bombardato e pochi edifici siano rimasti in piedi. La biblioteca è stata bruciata e prima saccheggiata. E molti parenti e familiari di membri di Daesh sono stati incarcerati in campi ad hoc. O esclusi dalla vita civile e sociale. Negli incontri pubblici che Un ponte per… ha potuto organizzare, però, sono state migliaia le persone che hanno scelto di partecipare e portare di nuovo musica, parole e vita nelle strade. E da qui si sta cercando di ripartire per capire in che modo sia possibile ridare una vita comune agli abitanti di Mosul, anche se il sostegno della comunità internazionale è stato molto debole sinora.

Nell’immaginario collettivo vinta la battaglia militare il problema non si pone più. Ed invece è proprio ora che sono necessari investimenti mirati a tutte le comunità. Ed è quello che ora in molti provano a fare. Lavorare con tutti coloro che hanno bisogno non escludendo, ma provando a costruire ponti di dialogo tra comunità.

Che è poi l’unica strada, assieme a delle opportunità di sviluppo sociale ed economico, per offrire un’alternativa al ritorno di Daesh o di chiunque voglia soffiare sul fuoco della povertà e del malcontento che cova ancora forte sotto le macerie.

In Siria invece il discorso è diverso. Perché la guerra è ancora in corso anche se Raqqa, la seconda capitale di Daesh dopo Mosul, è stata ripresa da tempo. La città è stata rasa al suolo. Un bombardamento punitivo contro Daesh che ha coinvolto , però, anche la popolazione civile. Amnesty international ha denunciato anche la violenza dell’attacco della coalizione che, appunto, ha voluto distruggere la città piuttosto che Daesh. Infatti con un accordo, che doveva rimanere segreto, tutti i capi di Daesh, sono stati fatti evacuare prima che le forze curde prendessero la città. I curdi appunto hanno ripreso il controllo della città che era sempre stata a maggioranza araba. E la loro egemonia, appoggiata da americani e francesi, non è pacifica. A Raqqa sono rientrate in pochi mesi centocinquantamila persone. Hanno preferito le macerie ai campi per rifugiati anche loro. Solo che mentre a Mosul c’era uno stato centrale iracheno che si è adoperato, anche se debolmente, per ricostruire i servizi, in Siria, con un conflitto in corso, manca ancora tutto. E quindi non c’erano scuole, ospedali, strade. E soprattutto Daesh aveva lasciato dietro di sé mine ovunque e molte trappole esplosive. I primi due mesi del rientro sono stati un drammatico elenco quotidiano di vittime di ordigni vari. A Raqqa abbiamo ricostruito il reparto di maternità dell’ospedale civile con i fondi della Cooperazione italiana. Un piccolo successo del nostro paese perché oggi è una delle poche strutture pubbliche e gratuite che assistono donne e bambini in città. Ogni giorno nascono delle nuove vite in mezzo al deserto della guerra.

Ma il dramma è che appunto dopo un anno le strutture sono ancora pochissime. E a parte gli Stati Uniti e la Francia, che però hanno costruito le loro basi militari nel Nord-est siriano, nessuno ha il coraggio di investire sulla stabilizzazione dell’area. Si continua a lavorare solo sull’emergenza sanitaria, educativa, per l’acqua. Emergenze importantissime ma che non guardano al futuro. E nel frattempo varie forze remano contro qualsiasi pacificazione e diversi membri del consiglio comunale che gestisce la città sono stati assassinati negli ultimi mesi. Ma la solidarietà a volte fa dei miracoli e costruisce in modo silente ed efficace. Durante la battaglia per riprendere Raqqa da Daesh le nostre ambulanze evacuarono, sotto le bombe, una palazzina abitata dalle poche famiglie cristiane rimaste in città. Rischiavano rappresaglie dell’ultimo minuto. Medici curdi ed arabi rischiarono la vita per portare in salvo quasi cento persone. E dopo la battaglia molti medici curdi, che sono stati vittime delle persecuzioni di Daesh, stanno curando le vedove ed i figli dei combattenti più radicali. Diverse organizzazioni locali si stanno adoperando per creare, nel Nord-est siriano attività di coesione sociale. I siriani sanno che dopo otto anni sono tutti vittime della guerra, vincitori e vinti. E lo sanno gli iracheni, dopo trentanni di guerre continue. E tutti sanno che non hanno molte strade da seguire se non quelle di ricominciare a vivere insieme e superare la paura. E possono farlo, se accompagnati dalla solidarietà e non da interessi geopolitici. Da loro ripartiranno delle ipotesi e delle vie di pace.

[Pubblicato su Confronti 12/2018]

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