di Edith Bruck. Autrice, saggista e poetessa
Per chi è uscito vivo, come me, da Auschwitz o dagli altri 1635 campi di lavoro forzato o di sterminio nazifascista, il giorno della memoria è quotidiano. Il 27 gennaio è diventato il giorno della memoria, il dovere della memoria, che talvolta può essere persino controproducente. Soprattutto oggi, in un mondo dove folle di affamati, offesi, torturati, fuggono da ogni dove verso un’Europa smemorata di sé, che sta regredendo verso i suoi tempi più bui. E in quel terreno da sempre fertile crescono fascismi, razzismi, odi, discriminazioni, nazionalismi, antisemitismi mai sradicati. L’uomo, e con lui i Paesi e gli Stati, complici e attivi nel genocidio più vergognoso, hanno delegato alle vittime il racconto della Shoah e delle loro nefandezze indicibili; autoassoltisi subito alla fine della Seconda guerra mondiale, nel nome della riconciliazione.
Dimenticare, non parlarne, non pubblicare il libro di Primo Levi Se questo è un uomo per non turbare le coscienze più o meno sporche, rimuovere i ricordi, la memoria del male assoluto, non confrontarsi con i propri misfatti, non imparare niente del passato, dei campi di concentramento, e dei gulag. Poi dei tanti piccoli Auschwitz sparsi nel mondo: Hiroshima, Cambogia, Vietnam, e così via all’infinito. La Jugoslavia, l’Asia, il così vicino Medio Oriente, e l’Africa in casa nostra, migranti usati come fumo negli occhi, accolti e sistemati alla peggio dopo aver sfruttato il loro suolo e oggi le loro braccia.
Una sopravvissuta come me, salvata dal fuoco, e dall’odio verso chiunque e di qualsiasi colore o fede sia, sente doppiamente la sofferenza altrui; sa cos’è il dolore, il freddo, la fame e la convivenza con la morte; sa cos’è la fuga, la cacciata dal nido, dal proprio paese; sa di non sapere dove sbattere la testa, che fare con la vita e dove ricominciarla.
Oggi più che mai non posso tacere sul mio vissuto, per ciò che accade ai miei simili, in un mondo violento, incarognito, anche se ha la pancia piena.
Nella cultura ebraica testimoniare, raccontare, è fondamentale. Anche se è troppo doloroso dopo Auschwitz, ma è molto utile per chi non sa, per chi non vuol sapere, per chi nega, e pensa che tutte le sofferenze e perdite si equivalgano. Per esperienza posso dire che l’ascolto c’è, ho incontrato migliaia di giovani che hanno capito il mio passato per il loro presente e futuro. Il tempo è solo uno: il presente è figlio del passato; il futuro sarà figlio del presente; e tenere vivo il nostro “ieri” dovrebbe insegnare qualcosa oggi, e l’oggi al domani. Ma – ahimé –, mi sembra che il tempo, la Storia, abbiano insegnato ben poco. E il male torna a colpire come un boomerang su chi non l’ha lanciato.
Potrei dire infine, che raccontare il mio vissuto – pur essendo un peso che non diminuisce né con le parole né con le decine di libri e i versi che ho scritto – parlarne, testimoniare, è anche gratificante e mai vano. E non per il numero dei lettori, ma per le molte lettere di ragazze e ragazzi che mi promettono di non essere più né razzisti né antisemiti. Che confessano che lo erano prima di incontrarmi. Spergiurano di avere capito i diritti e la dignità altrui di qualsiasi fede o colore. Raccontare a loro qualche raggio di luce anche nel buio più profondo, ciò che è capitato a me nei campi.
Cinque episodi positivi di soldati tedeschi durante un anno di prigionia: una mano tesa con una patata calda; una con un guanto bucato; una con un po’ di marmellata lasciata nella gavetta; una bocca che mi aveva chiesto il mio nome (miracolo!), e uno che doveva uccidermi e non ha premuto il grilletto (doppio miracolo!). Anche i loro occhi offuscati, quando mi ascoltano e vedono nei miei la luce della speranza per quei gesti, inimmaginabili in quei luoghi, si illuminano dei miei racconti.
[Pubblicato su Confronti 01/2019]