di Samuele Pigoni. Si occupa di progettazione sociale e filosofia. Lavora come program manager per Diaconia valdese.
Sulla porta del suo studio Carl Gustav Jung aveva scritto: «Vocatus atque non vocatus Deus aderit» (invocato o meno il Dio si presenta), a dire che l’essere umano, quell’animale cosciente emerso dalla trama complessa degli elementi, è religioso, e da sempre fa esperienza di qualcosa o qualcuno che lo precede, contiene e orienta.
Il 21 maggio 2005 per la cerimonia delle lauree al Kenyon College, David Foster Wallace tiene un celebre discorso dal titolo This is water. Si tratta di una vera meditazione, un discorso profondamente spirituale pronunciato da un maestro buono e disperatamente consapevole di ciò che nella vita conta davvero.
«Nella trincea quotidiana in cui si svolge l’esistenza degli adulti non c’è posto per una cosa come l’ateismo. Non è possibile non adorare qualche cosa. Tutti credono. La sola scelta che abbiamo è su che cosa adorare. E forse la più convincente ragione per scegliere qualche sorta di dio o una cosa di tipo spirituale da adorare – sia essa Gesù Cristo o Allah, sia che abbiate fede in Geova o nella Santa Madre Wicca, o nelle Quattro Nobili Verità, o in qualche inviolabile insieme di principi etici – è che praticamente qualsiasi altra cosa in cui crederete finirà per mangiarvi vivo. Se adorerete il denaro o le cose, se a queste cose affiderete il vero significato della vita, allora vi sembrerà di non averne mai abbastanza. È questa la verità» (Questa è l’acqua, Feltrinelli 2008).
Gli esseri umani, da sempre, vivono l’incontro con una realtà ultima e vivente che chiamano verità divina, sacra o spirituale. Lo fanno mentre guardano meravigliati le stelle o ascoltano terrorizzati i suoni della notte, mentre soffrono l’ingiusta sventura o cantano il dono inaspettato, quando tremano al pensiero della propria morte o invocano coraggio nel tempo della malattia.
William James, padre della psicologia delle religioni, diceva che la religione di un individuo si può identificare «con la sua attitudine, qualunque essa possa essere, rispetto a ciò che egli sente essere la verità primitiva, fondamentale per la sua vita» (Le varie forme dell’esperienza religiosa, Morcelliana 2001).
A James non interessava tanto indagare i contenuti delle singole religioni (i dogmi, le credenze) quanto stabilire il valore filosofico dell’esperienza religiosa come tale, e cioè riconoscere che il fenomeno religioso è del tutto connaturato all’essere umano (l’uomo è un animale religioso) e che la sua rilevanza sta nel portato trasformativo ed etico che ha per l’individuo.
Quando a qualcuno di noi succede di incontrare e riconoscere come ultima una dimensione che lo riguarda pienamente e profondamente, è una cosa speciale che ha il potere di cambiare la vita: si ridimensionano le pretese incondizionate dell’io di coincidere con la vita stessa. Stare in relazione con altro da me, che mi precede, protegge e invia, significa che non sono dio e che non è dio qualunque cosa particolare io abbia, faccia, ami o odi, a cui aspiro o per cui lotto.
Chissà se Foster Wallace aveva letto William James. Di sicuro tutti e due sanno quanto il segreto stia proprio nel dare priorità a questa verità nella consapevolezza quotidiana, evitando di attribuire valore ultimo a ciò che non esce dai confini del nostro accidentale e penultimo io.
Se la nostra verità infatti saranno i figli e la nostra famiglia, la carriera professionale, la visibilità sociale, il denaro e il nostro corpo, ciò che pensiamo sia nostro diritto e la più giusta delle nostre battaglie, le nostre simpatie e antipatie, è alto il rischio che ne verremo divorati vivi e che la nostra vita si riduca ad un alternarsi continuo e incontrollato di aspettative tradite.
E questo ha solide conseguenze nel modo in cui ci rapportiamo agli altri, perché quanto più leggiamo gli altri a partire dalla lente dell’io, dalle altezze dei «minuscoli regni grandi come il nostro cranio», quanto più il centro del creato siamo noi, con i nostri attaccamenti e avversioni, tanto meno c’è posto per vedere, ascoltare, incontrare davvero gli altri, amandoli per come sono con le loro, che sono le nostre, fragilità, differenze e meraviglie.
[Pubblicato su Confronti 01/2019]