di Samuele Pigoni. Si occupa di progettazione sociale e filosofia. Lavora come program manager per Diaconia valdese.
Nel suo ultimo film, “Capri Revolution”, Mario Martone fa dire a Seybu, leader della comune alla quale la protagonista si avvicina, qualcosa di apparentemente banale: «Non siamo al mondo per migliorarci, ma per diventare noi stessi».
Il cambiamento è avvenuto giorno dopo giorno, lento e sotto pelle, eppure instancabile e necessario come solo il Dna e la Storia sanno essere. Abbiamo iniziato con un personal computer, poi sono arrivati smartphone e i primi profili social: pensavamo a nuovi utensili, semplici innovazioni di tipo operativo, roba utile per fare più cose e meglio. In realtà stavamo operando una rivoluzione antropologica mai vista prima. Senza neanche accorgercene ci stavamo assoggettando ad un nuovo imperativo: il miglioramento continuo di sé, come fossimo noi stessi un’applicazione, un sistema di qualità, un progetto. L’intera cornice sociale si stava riorganizzando e innovando attorno ad un apparato tecnico-economico che, con concretezza e capillarità “palmare”, stava modificando la percezione che abbiamo di noi stessi, degli altri e del mondo. Al cuore della psiche innestava la convinzione definitiva che ognuno di noi è – esclusivamente – il progetto che fa di sé e che ogni nostro gesto, sentimento, scelta o relazione, abbia senso solo in quanto performance utile all’illimitata promozione migliorativa del sé.
Miglioramento agli occhi degli altri, perché di essere abbracciati in fondo abbiamo tutti bisogno, e miglioramento ai propri stessi occhi, perché di riconoscerci nella nostra immagine e poter dire «io sono» non possiamo fare a meno.
La distopia di un’esistenza intimamente assoggettata al progetto e marketing di sé è perfettamente rappresentata nell’episodio Caduta libera della serie Black Mirror: qui ogni possibilità di vita – cambiare casa, iniziare un nuovo lavoro, acquistare un volo, iniziare una relazione – dipende dall’accumulo di like e feedback positivi ottenuti dagli altri. La realtà si riduce a un gioco di specchi nel quale gli specchi sono gli altri: svuotati della loro alterità e utili solo a riflettere la nostra immagine. Herbert Marcuse parlava di principio di prestazione e Michel Foucault aveva colto come nella fabbrica del soggetto neoliberista, l’io sia costantemente spinto a mutare per rinforzarsi e sopravvivere nella competizione.
Il singolo si trasforma così in esperto di se stesso, datore di lavoro di se stesso, inventore di se stesso, imprenditore di se stesso e oggi consulente e promoter di se stesso. Il gioco, le cui regole sono la somma complessa di innovazione tecnologica, tecniche di governo psicopolitico e iper-razionalità economica, si fa claustrofobico. Eppure, che ci siano regole che stanno strette e poteri che attentano alla soggettività non è cosa nuovissima.
Il punto, in ogni epoca, sembra essere quello: in che modo conciliamo l’inevitabile assoggettamento alle regole del gioco con la libertà, la ricchezza e l’eccedenza che rende umani individui e gruppi perché irriducibili a qualunque progetto a una dimensione (per tornare a Marcuse)? È così vero che nell’asfissia performativa abbiamo saturato lo spazio e il tempo tanto da espellere la dimensione dell’alterità, dei conti che non tornano, della rispettosa segretezza di parti di sé e della propria quotidianità, delle innumerevoli bocciature che la vita ci riserva, di tutto ciò che è irrimediabilmente negativo, inutile, imprevedibile e che in quanto tale non funziona in termini di marketing di sé? È ancora possibile “diventare noi stessi” come voleva Seybu nell’epoca della fine della segretezza, dell’ipervisibilità?
Maura Gancitano e Andrea Colamedici, animatori di un interessante esperimento di pratiche filosofiche, Tlon (scuola di filosofia e immaginazione, community non accademica di filosofi, casa editrice e teatro-libreria) analizzano ogni aspetto dell’ingiunzione prestazionale nel loro La società della performance (Edizioni Tlon, Roma 2018) e ci propongono il loro segnavia. Rileggendo due antiche storie di ricerca della via, il mito della caverna di Platone (come si esce dall’illusione per scoprire la realtà?) e il testo zen dei 10 Tori di Kakuan (come si incontra e coltiva la propria vocazione profonda?) si pongono esattamente il nostro problema e cioè come sia possibile uscire da Dark Mirror, dagli schemi apparentemente gratificanti ma insoddisfacenti della società occidentale di oggi.
La proposta è decisamente pop, a modo suo iniziatica e situazionista, un mix complesso e divertente di filosofia e critica della società, un invito a bighellonare sulle orme dell’ironia e del gioco, dell’immaginazione attiva e divergente, della leggerezza e della pratica quotidiana di disconnessione dai dispositivi competitivi (dal sovranismo alle shit-storm digitali), riabilitando tutte le facoltà umane inutili e perditempo che poco hanno a che vedere con la promozione ed il miglioramento produttivo di sé e molto con la contemplazione dell’imprevedibile e dell’Altro.
Non si tratta di censurare o fuggire dal mondo alla ricerca di qualche altezza o purezza ma di rimanere, dentro di sé e di fronte agli altri, divergenti e aperti, perché oggi come ieri, anche in mezzo alla più sottile microfisica del potere, è nel contenimento delle pretese narcisiste dell’io e dei suoi talenti che è data la possibilità di incontrare la propria vocazione.
[pubblicato su Confronti 02/2019]