di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
Al contrario di quanto si è pensato per lungo tempo, la teologia non dispone di informazioni provenienti direttamente da Dio: essa è una parola umana, frutto di un pensiero umano e, in quanto tale, anche frammentaria e provvisoria.
Uno degli iniziatori dell’avventura culturale ed ecclesiale che è all’origine di questa rivista, il pastore Giorgio Girardet, mi raccontò un giorno questa barzelletta:
«La differenza tra il poeta, il filosofo e il teologo è la seguente: il poeta cerca, in una stanza buia, un gatto nero; il filosofo cerca, in una stanza buia, un gatto nero, che però non c’è; il teologo cerca, in una stanza buia, un gatto nero, che non c’è, e dice di averlo trovato».
La battuta, assai efficace, si presta a varie considerazioni: temo, ad esempio, che non si rivolga (sol-)tanto alla teologia in senso specifico, quanto alla fede in generale. Comunque riflette un’opinione diffusa, e a suo modo trasversale, sul pensiero teologico: intanto, esso riterrebbe di disporre di informazioni provenienti direttamente da Dio e come tali indiscutibili, a patto ovviamente che siano «credute» (una «rivelazione»); forte di tale patrimonio, poi, la teologia sarebbe in grado di elaborare una visione complessiva della realtà.
Un libro, vecchio di qualche decennio, di un celebre autore evangelico reca come sottotitolo: «Saggio sulla libertà e la necessità, la storia e la legge, l’uomo, il male e Dio». Per il resto, si potrebbe chiosare (che so: il manuale del perfetto pescatore…), ci stiamo attrezzando. L’antica espressione «sacra teologia», che ancora oggi si trova in denominazioni ufficiali di facoltà e di titoli accademici, esprime in fondo questa comprensione: certo, la «sacralità» proviene dal Tema (ovviamente con la T maiuscola), non è intrinseca al pensare teologico in quanto tale. Però, sembrerebbe, finisce per assorbirlo: quasi per contagio o, volendo essere scolasticamente corretti, «per partecipazione». Meno elevata, ma anch’essa non priva di problemi, è l’espressione «teologia sistematica», che peraltro indica anche la cattedra di chi scrive.
Il «sistema» evoca, nel linguaggio soprattutto filosofico, un’idea di organica compiutezza. Si tratta, dicevo, di un’opinione trasversale, condivisa da alcuni «teologi» e da molti detrattori della teologia: naturalmente per ragioni, e appunto con conseguenze, diverse. In quanto cristiano che si occupa di teologia ho invece sempre trovato feconda e consolante l’applicazione al mio lavoro dei celebri versi di Montale: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe» e tantomeno, aggiungerei, quello di Dio, che informe verosimilmente non è.
Quella teologica è una parola umana, frutto di un pensiero umano: e umana è anche, nel cristianesimo, la manifestazione della parola di Dio, sia in senso stretto (l’uomo Gesù), sia in senso derivato (la Bibbia); ed è anche una parola frammentaria e provvisoria. La teologia non siede su una terrazza panoramica, dalla quale contemplare dall’alto l’Universo e la Storia. Al contrario, essa è immersa nel flusso della vicenda umana e ne ha una visione prospettica, cioè sempre parziale.
Quando cerca di farsi «sistema», cioè di tenere insieme tutti i pezzi, in un mosaico in sé compiuto, nel migliore dei casi diviene una forzatura speculativa, per nulla convincente dal punto di vista intellettuale e problematica da quello spirituale. Credo si possa fare teologia solo per tentativi e per frammenti. Esiste una precarietà, o anche povertà, intellettuale della teologia che corrisponde a quella della vita di fede: in fondo, la teologia cristiana è un tentativo di discepolato nella forma del pensiero.
Ma come la mettiamo con il «gatto nero»? La barzelletta di Girardet ha in effetti un nucleo di verità:
il pensare cristiano si interroga sulla realtà a partire dalla convinzione (di nuovo: la «fede») che essa abbia profondamente a che vedere con quella realtà prima e ultima, nonché radicalmente insondabile, che alcuni e alcune insistono a chiamare Dio.
In passato tale convinzione era egemone nella società, mentre oggi, almeno dalle nostre parti, è decisamente minoritaria.
Il compito sociale della teologia consiste nel mostrare che la “fede” è in grado di generare e nutrire pensiero critico: cioè ipotesi di lettura della realtà interessanti anche per chi non fa proprio tale atteggiamento dello spirito. Il gatto (Gatto?) nero non si lascia catturare: e proprio in tal modo mobilita la riflessione.
[pubblicato su Confronti 02/2019]