di Paolo Naso. Centro studi Confronti, Coordinatore di Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei), docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma.
Macerata, 3 febbraio 2018: Luca Traini, un bianco che ama le armi e coltiva nostalgie fasciste, gira per la città con un fucile con il quale, in diverse sparatorie, ferisce sei giovani subsahariani. Christchurch, Nuova Zelanda, il 15 marzo 2019 un suprematista bianco entra in una moschea imbracciando un fucile automatico e in pochi secondi uccide 50 musulmani in preghiera. In seguito appare un post che inneggia a Luca Traini e ad altri terroristi suprematisti. Milano, il 20 marzo del 2019 l’italo-senegalese Ousseynou Sy prende in ostaggio 51 tra studenti e insegnanti e incendia il bus sul quale stavano viaggiando. Dichiara di averlo fatto per vendicare i bambini e i profughi che muoiono cercando di attraversare il Mediterraneo. Cagliari 15 marzo 2019, un tifoso si sente male perché colpito da infarto e ampi settori della tifoseria opposta intonano ripetutamente il coro «Devi morire». Tutti fatti di cronaca degli ultimi mesi, molto diversi e di ben diversa rilevanza tra loro. Non c’è nulla che li tenga insieme se non la brutalità della violenza che esprimono. La differenza è che se quelle di Milano e di Macerata potevano essere delle stragi, quella di Christchurch lo è stata, e con numeri impressionanti. Quanto all’episodio di Cagliari potrà apparire una piccola cosa ma, ripensando alla sistemica violenza di tanti stadi italiani, è la spia di una violenza potenzialmente letale e, data la forza delle curve calcistiche, altamente distruttiva.
Che cosa abbiamo di fronte? Un vento di follia che dalla Nuova Zelanda all’Italia fa preda di menti deboli e confuse? Una corrente letale e irrazionale di violenza che attraversa il mondo intero cercando giustificazioni ideologiche? Lo scontro tra il terrorismo suprematista da una parte e quello antioccidentale dall’altro?
Qualcuno potrà anche cercare, se non delle giustificazioni, delle spiegazioni del perché un bel giorno qualcuno prende in mano un’arma e si mette in mente di uccidere il maggior numero di persone possibile. O del perché qualcuno auguri di morire a un tifoso di fede calcistica diversa dalla propria. Non sono pochi coloro che propendono per un’interpretazione psichiatrica che attribuisce questi gesti alla follia di mitomani alla ricerca del gesto eclatante che riscatti la loro vita di fallimenti e frustrazioni.
Eppure non mi tolgo dalla testa che possa esserci anche un’altra interpretazione di quello che sta accadendo, più problematica e più pessimistica. E cioè che non siamo di fronte soltanto a menti deviate da costringere in strutture protette perché non possano più nuocere agli altri e a se stesse, ma a un veleno diffuso nelle nostre comunità sociali e civili, nelle nostre città. Un veleno ben camuffato da forme plausibili e persino attraenti che però, appena toccato o sfiorato, trasforma il suprematista in un killer, il fondamentalista in un terrorista, il tifoso in una belva amorale, il mite uomo della strada in un lupo solitario alla ricerca di vendette che soltanto lui comprende e concepisce. Chi è più attrezzato sta alla larga da questi veleni, ne conosce il fetore e la forza letale, cerca perfino di bonificare le zone in cui vengono depositati. Altri ci passano vicino ma preferiscono evitare ogni rischio e si accontentano di evitarli. Altri ancora ne sono attratti e finiscono per assumerne la potenza distruttiva. Sono i veleni del razzismo, di un fondamentalismo belligerante che predica il sermone di vittime che si ribellano contro i carnefici, di un suprematismo che senza indossare i cappucci bianchi del Ku Klux Klan educa alla superiorità morale della razza e della civiltà bianca, del genere, di un identitarismo tribale che impugna la clava per combattere e colpire qualsiasi diverso, persino quello che gioca con una maglia diversa dalla propria.
Se così è ciò che abbiamo di fronte non è una follia che, deo gratias, non ci riguarda ma il frutto dei nostri fallimenti e della nostra incapacità a bonificare lo spazio nel quale vogliamo vivere. Ogni concessione – anche piccola e benevola – alla superiorità di una cultura, di un genere, di una religione o di un’appartenenza alimenta veleni che ci possono uccidere.
Così come ogni giustificazionismo della violenza terroristica, magari nel nome della vittimizzazione neocoloniale o della prepotenza dell’Occidente. La scuola, certo, deve fare la sua parte.
Ma anche certa politica che, invece, sta giocando col fuoco pericoloso del pregiudizio e della superiorità di una etnia, di una tradizione e di una religione. E anche chi fa comunicazione ha molto da riflettere sul ruolo di social media virulenti e capaci di distorcere e alterare la realtà. Ma soprattutto noi, testimoni spesso muti e tolleranti di discorsi e comportamenti che avvelenano i pozzi ai quali si dovrebbe abbeverare ogni società che si pretende democratica, libera e sicura.
[pubblicato su Confronti 04/2019]