di Paolo Attanasio. Centro Studi e Ricerche IDOS/Dossier Statistico Immigrazione.
La questione migratoria, che agita i sonni di tanti nostri governanti, viene spesso abbordata in termini semplicistici e superficiali, con accenti allarmistici che tendono a trasformarla in una catastrofe epocale. Oltre a questo, però, anche chi si occupa di mobilità umana senza tesi preconcette tende spesso a darne una visione eurocentrica, scattando la foto dalla nostra sponda del Mediterraneo, tralasciando di mettersi nei panni di chi emigra e, in definitiva, rinunciando a comprenderne buona parte delle motivazioni.
Ecco perché il Centro studi e ricerche Idos ha voluto dare voce a chi la migrazione la vive sulla propria pelle, con un lavoro di ricerca concluso alla fine del 2018, e incentrato sulla migrazione dei giovani senegalesi, provenienti da una regione, il Matam, ai confini nord-orientali del paese, sulle sponde del fiume Senegal.
La diaspora senegalese in Italia, pur non essendo la più numerosa (poco meno di 100.000 soggiornanti nel 2017) è storicamente una delle prime comunità insediatesi nell’Italia degli anni ‘80, ancora incredula di essere diventata nel giro di pochi anni un paese di immigrazione.
Ma il Senegal (come ormai molti altri paesi del mondo, Italia inclusa) non è soltanto un paese di emigrazione: a fronte di una diaspora di 560.000 senegalesi all’estero, il paese ospita oltre 260.000 stranieri, in gran parte africani. La ricerca (che si inscrive in un più ampio progetto di cooperazione internazionale portato avanti dall’Ong Green Cross Italia) ha dato vita al volume bilingue Partir et Revenir – Partire e Ritornare, ed è stata condotta nell’estate 2018 in Senegal con un duplice obiettivo: valutare il grado di informazione e di conoscenza della popolazione rurale della regione di Matam a proposito della migrazione, inclusa la migrazione irregolare, e analizzare la propensione alla migrazione di un campione significativo di popolazione locale; analizzare la realtà della migrazione in Senegal e in Italia, anche allo scopo di accrescere le opportunità di una migrazione di ritorno dall’Italia al Senegal.
Nonostante si tratti di un’indagine circoscritta a una comunità ben precisa, i risultati delle trecentosessantacinque interviste effettuate (a migranti di ritorno, a migranti in visita ai villaggi di origine, a famiglie di migranti rimaste in Senegal, ad autorità locali amministrative e religiose) gettano una luce in qualche misura nuova sulle speranze di chi parte, sulle aspettative di chi resta, sulle ambizioni di chi torna e, in definitiva, sul ruolo dell’emigrato/immigrato nelle due società fra le quali si muove.
È innanzitutto interessante notare che, anche in un paese come il Senegal, in cui la diaspora attualmente non supera il 3,5% della popolazione residente nel paese, il 90% degli intervistati conosce almeno una persona che è emigrata. Quella di emigrare è un’opzione ben presente nelle persone interpellate nel corso dalla ricerca: la stragrande maggioranza (83%) la considera una soluzione, ma per una maggioranza ancora più schiacciante (89%) non è certo l’unica via d’uscita nei confronti di una situazione che si fa sempre più difficile.
L’opinione pubblica (sempre estrapolando dal campione intervistato) mostra un certo ottimismo nei confronti dell’emigrazione, soprattutto per quanto riguarda le possibili ricadute economiche in termini di rimesse. Le rimesse dei senegalesi all’estero hanno infatti raggiunto nel 2017 un totale di oltre 2,2 miliardi di dollari, di cui 371 milioni soltanto dall’Italia. Le rimesse verso il Senegal, del resto, sono in continua crescita (nel 2013 erano 1,77 miliardi) e rappresentano una voce importante nell’economia del paese, dato che nel 2017 hanno raggiunto il 13,7% del Pil.
Le rimesse dei cittadini senegalesi all’estero sono state finora impiegate essenzialmente in consumi privati (aiuti alle famiglie di origine) e in investimenti di carattere sociale e religioso (realizzazione di opere pubbliche come scuole, dispensari, pozzi, moschee). Per mettere le rimesse realmente al servizio dello sviluppo del paese (come si vedrà più avanti) è però indispensabile attivare un terzo livello di impiego, quegli investimenti produttivi che potrebbero costituire un volano per l’economia locale.
Uno degli obiettivi dell’indagine era anche quello di approfondire le motivazioni che inducono alla migrazione, al di là della semplificazione guerra-povertà. I nuovi mezzi di comunicazione, e la globalizzazione di un’informazione divenuta istantanea sono, come è di dominio comune, all’origine di gran parte delle migrazioni. Ma le interviste ci parlano anche di altri fattori.
La pressione esercitata dalle famiglie sui figli maschi ha anche un ruolo molto importante, come pure l’immagine positiva trasmessa (spesso involontariamente) dal migrante che ritorna al villaggio in vacanza, e che contribuisce al benessere e allo sviluppo non soltanto della propria famiglia, ma di tutta la comunità.
D’altro canto, proprio grazie ai nuovi mezzi di informazione, i rischi insiti nella migrazione irregolare non sono più sconosciuti, e anche la preoccupazione per la propria sicurezza una volta giunti a destinazione inizia a farsi strada nei potenziali emigranti, segno che la nuova intolleranza che si sta diffondendo in numerosi paesi di immigrazione non passa inosservata.
L’indagine, in buona sostanza, ci porta a guardare con occhi nuovi a concetti e teorie che sembravano ormai consolidati, come la distinzione fra migranti economici e migranti forzati, che pretende di tracciare un confine fra chi è meritevole di assistenza e di accoglienza e chi non lo è. Povertà, disoccupazione, cambiamenti climatici che, secondo l’ Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), potrebbero generare 200 milioni di rifugiati ambientali nei prossimi 30 anni, sembrano, in definitiva, all’origine di un unico “flusso misto”, accomunato dalle medesime ragioni di sopravvivenza.
Con una buona dose di saggezza, le persone che abbiamo incontrato respingono l’idea che la migrazione possa diventare l’unica strada percorribile per sopravvivere.
Nessuno lascia la propria casa, la propria terra, i propri affetti a cuor leggero. «Se un diritto va rivendicato, è quello di poter restare e di sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati» ci dice Valerio Calzolaio nell’introduzione al volume. È dunque chiaro che, se si vuole evitare che la migrazione diventi l’unica via di fuga da una situazione sempre più difficile, le popolazioni rurali (fra le quali la povertà è più acuta) dovrebbero essere messe concretamente in grado di esercitare questo diritto.
Non stiamo parlando dello slogan sbrigativo «Aiutiamoli a casa loro!», ma della valorizzazione delle risorse della diaspora, che uniscono a una valenza puramente economica anche un patrimonio di saperi e competenze che è necessario e urgente valorizzare, soprattutto in una fase storica come quella attuale, in cui l’irrigidimento delle politiche di accoglienza e integrazione minaccia di ridimensionare drasticamente i flussi di rimesse. Di fronte a questa eventualità, appare dunque improcrastinabile l’avvio di un serio processo di sviluppo auto-centrato, in cui l’apporto delle diaspore può rivelarsi decisivo.
[pubblicato su Confronti 04/2019]
Photo: © Michele Lipori