di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
Un secolo fa, il teologo evangelico svizzero osa riprendere da un certo punto di vista teologico la critica alla religione di grandi profeti dell’ateismo quali Feuerbach e Marx. Per Barth il Dio vissuto nelle chiese è esposto alla tendenza a configurarsi come un idolo.
Un secolo fa, il teologo evangelico svizzero Karl Barth presenta, in un libro che lo renderà famoso, un progetto che appare a molti rivoluzionario, anche se, in realtà, non è privo di precedenti. Barth osa riprendere, da un punto di vista teologico, la critica alla religione e alla chiesa – di fatto esistente – svolta nell’Ottocento dai grandi profeti dell’ateismo, in particolare Feuerbach e Marx.
Com’è noto, costoro sostengono che la religione è una proiezione del desiderio umano: di vita, di potere, di immortalità. Tale desiderio produce la credenza nel divino, che è costruito a immagine e somiglianza dell’umano, e non viceversa. Per Feuerbach, questa proiezione illusoria è frutto di ignoranza e va abbattuta mediante il sapere. Per Marx, si tratta di un prodotto di rapporti di lavoro perversi: la religione verrà abbattuta solo dal venir meno del bisogno che la genera, cioè con la costruzione di una società realmente umana.
Comprensibilmente, questo tipo di critica non viene accolto con favore dagli ambienti cristiani. Barth ritiene invece che esso colga nel segno, in quanto il Dio del cristianesimo vissuto e delle chiese è esposto alla tendenza a configurarsi come un idolo, a misura delle chiese stesse e della loro “clientela” sociale. Per Barth, però, la critica più efficace alla religione non è quella dell’ateismo classico, bensì quella di Dio stesso: la rivelazione di Dio critica la gestione religiosa del sacro. Lo afferma l’Antico Testamento, soprattutto i profeti, lo afferma Gesù.
Dio è “totalmente altro”, dirà il teologo nei primissimi anni Venti, con espressione che diviene famosa. La religione è la torre di Babele che vorrebbe salire a Dio. L’incontro autentico con lui, invece, avviene nella rivelazione, che scende dall’alto e viene accolta nella fede.
Religione e fede, dunque, non solo non costituiscono sinonimi, ma sono in reciproca tensione.
Naturalmente, per Barth, questo discorso va inteso in modo essenzialmente critico. La “fede” è, se così si può dire, la consapevolezza dell’ambiguità della religione; appena si tenta di fissarla in dottrine o organizzazioni, diviene religione essa stessa.
Un certo “barthismo” semplificato (e molto “antibarthismo” da quattro soldi) ha invece inteso così: la fede è il nucleo vivo (di fatto: ciò che credo e pratico io che parlo), la religione è la scorza, esteriore, rituale, istituzionale, di solito propria degli altri. Basta eliminarla, “profeticamente” – manco a dirlo – e ritroviamo la fede allo stato puro, in “spirito e verità” (citazione spesso usata in questo contesto, del tutto a sproposito).
Per un certo periodo (tra gli anni Sessanta e Settanta), questo “pseudobarthismo” ha avuto un certo successo: la religione era “di destra”, ma la fede poteva essere “di sinistra”.
Con l’esplosione del pluralismo religioso e delle ideologie pluraliste del postmoderno, la religione, sembra, è ridiventata “buona”. Se qualcuno rileva che essa può produrre morti e intolleranza, basta dire che non è colpa della religione, ma del suo “degrado fondamentalista”: cioè, ancora una volta, della religione diversa dalla mia. Feuerbach e Marx sono dimenticati; quanto a Barth, è un teologo, e quindi, per definizione, incapace di cogliere il reale. La presa d’atto del “ritorno del religioso” è spesso accompagnata dall’ideologia del «religione è bello!».
La teologia cristiana sa invece, dalla Bibbia, quello che altri, chiese comprese, tendono a dimenticare, non disinteressatamente: che cioè, semplicemente, la religione è ambigua. Ogni forma di rapporto con la realtà che chiamiamo Dio è inevitabilmente religiosa, il che però significa che è relativa e condizionata da ogni punto di vista, da quello politico a quello del genere.
La critica teologica alla religione costituisce un compito decisivo della testimonianza cristiana: essa comincia, evidentemente, con l’autocritica del cristianesimo stesso e conosce una radicalità inaudita sia per chi ignora gli orizzonti aperti dalla Scrittura, sia per i chierichetti del nuovo “religionismo” trasversale.
Le grossolane semplificazioni correnti (tipo: la religione è “concretamente vissuta”, la teologia – invece – è astratta) sono sempre al servizio dell’ideologia e quella religiosa non è meno mortifera di altre.
[pubblicato su Confronti 05/2019]