di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Nel secolo scorso il cinema – a partire dalla maschera di Charlot del grande Charlie Chaplin – ha rappresentato il più importante accesso alla cultura per larga parte della popolazione, soprattutto se di origine proletaria. In Italia, molti sono stati gli autori che, soprattutto con le opere destinate al grande pubblico, hanno avuto un ruolo per la crescita culturale e civile del nostro Paese. Fra questi emerge la figura di Mario Monicelli.
Come molti miei contemporanei nati in una famiglia proletaria, il cinema ha significato nel secolo scorso il più importante accesso alla cultura, alla conoscenza del mondo e delle umane esperienze e passioni. È stato davvero “l’arte del Novecento” (con la fotografia, sua sorella), ed è bene ancora ricordare che il muto permise a un grande attore-regista come Charlie Chaplin di arrivare a tutti per il tramite della maschera di Charlot, di essere stato nella storia dell’umanità l’unico artista che, grazie al cinema muto e alla “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte”, sia riuscito a “parlare” a grandi e bambini, femmine e maschi, letterati e analfabeti, ricchi e poveri, bianchi e neri e d’ogni altra sfumatura e d’ogni altra lingua e cultura.
Il cinema è stato anche col sonoro una grande arte popolare, e, come Mario Monicelli amava ripetere – l’autore di Guardie e ladri, I soliti ignoti, La grande guerra, L’armata Brancaleone e decine di altri film di grande successo popolare interpretati da attori spesso geniali come Totò e Fabrizi, Sordi e Gassman, Magnani e Vitti, Mastroianni e Manfredi – la funzione del cinema destinato al grande pubblico fu fondamentale per la crescita culturale e civile del nostro popolo. Quantomeno negli anni che vanno dalla Resistenza allo sciagurato e infame delitto Moro, che segnò la fine di un’epoca e l’inizio del declino, ormai inarrestabile, del nostro paese. Da Roma città aperta (Rossellini) a Un borghese piccolo piccolo (Monicelli!)…
Sono stato per molti anni critico cinematografico e ho avuto modo di conoscere molti cineasti, registi, attori, sceneggiatori, tecnici – intervistandone, per esempio, decine e decine per i libri che feci insieme alla mia amica Franca Faldini, che era stata, giovane attrice, la compagna di Totò. Di alcuni divenni amico, e tra questi quelli che più ho amato sono stati Federico Fellini e, appunto, Mario Monicelli. Di alcune qualità di quest’ultimo mi preme dire, vicine a quelle di alcuni altri cineasti di cui, pur avendoli conosciuti, non sono stato per mia colpa o pigrizia ugualmente amico, per esempio Pier Paolo Pasolini (sulla cui figura vorrei però tornare in futuro), o Luigi Comencini e Alberto Lattuada, lo sceneggiatore Furio Scarpelli, ecc.
Mi vengono in mente per primi questi nomi perché… perché non appartenevano all’area, diciamo così, comunista – che per più decenni ha dominato tra gli intellettuali del cinema – bensì a quella socialista (Comencini era per di più protestante, non apparteneva neanche all’altra area molto minoritaria che potremmo definire catto-comunista, che aveva alla sua testa Cesare Zavattini, campione di un “buonismo” spesso superficiale).
Voglio anche ricordare che il ‘68 non produsse per mano dei giovani registi che ambivano a farne parte i film più radicali di quel tempo, e che essi ci vennero invece dall’occhio dal cuore dalla mente di registi, appunto, come il mite Comencini (provate a rivedere Lo scopone scientifico o Delitto d’amore!) o Monicelli (provate a rivedere Vogliamo i colonnelli!).
Nel nuovo secolo Monicelli non riuscì più a fare film, a esprimersi con un cinema che si rivolgesse direttamente alle masse e affrontasse direttamente il buono e il marcio, le speranze e le disperazioni collettive della nostra società.
I produttori lo consideravano troppo vecchio per investire ancora sul suo lavoro, ma egli riuscì a dare ancora un’opera molto significativa, Speriamo che sia femmina, e nel 2006 il suo ultimo film, che critica e pubblico sottovalutarono e che intendeva essere ed era una sorta di doppio di La grande guerra, dedicato stavolta alla seconda guerra mondiale: Le rose del deserto, dal racconto-testimonianza di Mario Tobino Il deserto della Libia. Un film da rivedere e da rivalutare…
Non riuscendo più a far cinema, ecco che allora Monicelli moltiplicò le sue apparizioni pubbliche approfittando di tutte le occasioni che gli si offrivano per dire la sua sull’era del berlusconismo, sull’agonia della Sinistra, sulla corruzione e il malcostume italiani, sulle speranze che potevano invece offrire azioni e interventi venuti da piccole minoranze attive e non solo dai grandi momenti di scontro che ancora c’erano. Ma voglio ricordare la sua presenza a Genova, al tempo del G8 e della feroce repressione contro i giovani manifestanti venuti da tutta Italia – l’ultimo momento, forse, della grande storia di una Sinistra più di base che istituzionale…
Mario non taceva, e quel che diceva veniva dalla sua storia ed esperienza, dalle convinzioni che si era fatto crescendo sotto il fascismo, facendo la guerra e partecipando “di sguincio” alla Resistenza, contribuendo nel dopoguerra al risveglio di un popolo con i mezzi dell’arte più popolare che ci fosse, il cinema.
In fondo, quel che ha saputo lasciare a me a tanti altri che l’hanno conosciuto, ma anche ai tanti che hanno saputo ascoltare la sua parola in tv e in occasioni pubbliche, è un modello di vigilanza, di lucidità, di ostinazione nella difesa con le parole e con i fatti delle proprie convinzioni e dei propri ideali. Quando non ce la fece più, vinto dal male, si uccise, e la sua scelta fu, a suo modo, tragicamente conseguente. Il “modello Monicelli” mi ha fatto pensare più volte a quello di Gaetano Salvemini, altro grande socialista (che ho fatto in tempo a conoscere prima che morisse), riassumibile nel titolo della rivista semi-clandestina che riuscì a fare prima dell’esilio, all’avvento del fascismo: Non mollare!
[pubblicato su Confronti 05/2019]
Photo: © Gorupdebesanez/ Wikimedia Commons