di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Raniero Panzieri, fondatore della rivista e del gruppo Quaderni rossi di Torino, fu una figura chiave della lotta al capitalismo, nella prospettiva della costruzione di un mondo migliore, più equo per tutti. Cosa rimane, oggi, di queste battaglie?
Ci sono figure importanti nella nostra storia, collettiva e civile, delle quali non si parla più semplicemente perché i tempi sembra le abbiano messe brutalmente da parte.
Ci si chiede: sono loro che non hanno capito il mutare del mondo, e hanno troppo creduto nella durata dell’epoca in cui hanno agito, o è la nostra infinita capacità di dimenticare e di ragionare ad averci portato a considerare infine inattuali le loro scelte, le loro posizioni?
Pensare oggi a quanto si è lottato per un mondo migliore – di maggior benessere e di maggior giustizia – e vedere cosa il mondo è diventato può condurre facilmente alla conclusione che niente serve a niente, che tutte quelle battaglie e quelle fatiche hanno portato sì, in paesi come il nostro, a un maggior benessere collettivo ma certamente non hanno reso l’uomo e la sua società più giusti su tanti altri piani e quelli più veri e profondi, più basilari: per esempio quelli delle disparità di classe, delle differenze nel colore della pelle, e di sesso, e di fede religiosa.
È molto difficile guardare al passato senza angustiarsi per il poco che si è fatto per contrastare la Storia così come denaro e politica l’hanno condizionata e voluta, ed è molto difficile non ripercorrere le lotte a cui si è assistito e aderito, a cui a volte si è partecipato vedendone poi la sconfitta e in definitiva una sorta di terribile insufficienza, anzi inutilità. Il nemico era assai più forte e più astuto di chi lo combatteva? Il regista Chris Marker divise un grande film documentario riassuntivo delle lotte sociali e politiche (mondiali) dagli anni Quaranta a tutti i Settanta in due parti: Le mani fragili e Le mani tagliate. Le prime: l’insufficienza e le divisioni interne (e la non-lungimiranza?) di chi lottava per un mondo migliore; le seconde: la forza, fatta di astuzia e violenza, dell’avversario. Non sono uno storico, ma sull’epoca che ho vissuto credo di avere idee abbastanza chiare, e ripensare alle lotte che ho visto (e a cui ho in minima parte contribuito) è più angosciante che corroborante.
Queste malinconiche riflessioni mi sono venute pensando al personaggio di cui volevo parlare, Raniero Panzieri, teorico e militante socialista dagli anni del dopoguerra – dapprima in Sicilia, poi nella redazione della rivista Mondo operaio a Roma e nella redazione della Einaudi a Torino quando non si trovò a suo agio nella politica socialista del centro-sinistra – e fondatore della rivista e del gruppo Quaderni rossi, sempre a Torino. Erano gli anni del “miracolo economico” e del risveglio delle lotte operaie, perfino alla Fiat, dopo i cupi anni della Guerra fredda.
Si parlava allora di neo-capitalismo e di nuova classe operaia (io stesso tradussi per Einaudi un libro con questo titolo, del francese Serge Mallet), e il mondo sembrava si fosse rimesso in cammino alla grande, con la Cina di Mao e l’India di Gandhi vittoriose pur con metodi diversi, con le lotte anti-colonialiste in Africa e con le guerriglie latino-americane, con i movimenti per i diritti civili dei neri americani e, sul piano della cultura, col grande fenomeno delle nouvelles vagues nelle arti affermato da giovani di tutto il mondo, mentre gli studenti loro coetanei cominciavano infine a ribellarsi quasi dovunque.
Il gruppo dei Quaderni rossi ebbe da subito due anime: quella che possiamo dire sociologica, rappresentata da Panzieri e dai giovani torinesi Rieser, Mottura, Dario e Liliana Lanzardo e altri, tra i quali io stesso, il più ignorante di tutti in fatto di teoria marxista e di sociologia, e quella che infine dette vita a una rivista rivale, Classe operaia, dopo una scissione molto sofferta da Panzieri. Classe operaia era molto più dottrinaria e si voleva più politica (Tronti, Negri, Asor Rosa e altri).
C’erano insomma un’anima torinese e sociologica, o così dicevamo, e una romano-veneta più tradizionalmente politica. Alla fine furono entrambe sconfitte, anche dall’incapacità-impossibilità di prevedere come il mondo stesse cambiando, e cambiasse l’economia, e come fosse destinata a una marginalità ininfluente quella classe operaia nel cui nome si lottava e nel cui incontro si fidava.
Ricordo Panzieri – fisicamente magro, e aereo, attento, gentile – come un intellettuale militante quali dovevano essere certe grandi figure dell’Ottocento e degli anni Trenta, lo ricordo con amore per la sua nervosa passione di giustizia, per la sua grandissima cultura (marxista e non marxista), per la sua bellissima famiglia (la moglie Pucci fu tra le traduttrici del Capitale), e per la sua generosa, affettuosa attenzione per il giovane ignorante e rozzo che io ero. Fu lui a stimolarmi a un’inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino per la quale perse poi il posto, perché all’Einaudi si spaventarono a doverla pubblicare e si inventarono scuse per non farlo, non dicendo che la casa editrice doveva troppo alla finanziaria della Fiat per poter accettare un’inchiesta che della Fiat diceva tutto il male possibile. Pochi mesi dopo Panzieri morì all’improvviso, a soli 43 anni di età…
La domanda invero angosciante che io mi pongo pensando a Panzieri e a tante, a un’infinità di vite che sono state dedicate alla lotta per un mondo migliore è la stessa di sempre: tutto questo agire e soffrire è servito a qualcosa? Il mondo di oggi è davvero migliorato grazie a tanta fatica?
La risposta che riesco a darmi è sempre la stessa degli antichi filosofi e dei nostri profeti: «Fa’ quel che devi, accada quel che può».
[pubblicato su Confronti 06/2019]
Photo: © Doriano Strologo