di Stefano Allievi. Sociologo e islamologo. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.
Complice anche lo sviluppo tecnologico e l’imperativo del rimanere sempre connessi, siamo sempre più proiettati in una dimensione in cui l’attesa è abolita. Con un presente che si brucia nell’istante, muta anche il rapporto che si ha con il passato (e il futuro). Ma come sarebbe il mondo se…
Viviamo un processo di progressiva presentificazione degli orizzonti: in sostanza, viviamo sempre più nel presente, sempre meno ancorati al passato, e ambivalentemente proiettati sul futuro.
La presentificazione degli orizzonti è evidente, e sociologicamente non viene considerata oggetto di dibattito, ma piuttosto un dato di fatto, un’evidenza empirica. Essa è visibile in molti atteggiamenti, tra i quali la maggiore propensione al godimento, l’adesione di massa, democratizzata, al principio del piacere: che, come tale, sempre meno accetta di lasciarsi proiettare e sublimare nel futuro, e sempre più richiede, come è nella sua natura, gratificazione immediata.
Questo atteggiamento complessivo è visibile nell’uso del tempo, nella spesa per consumi voluttuari (categoria ormai démodé: che cosa non lo è, al di là della sussistenza?), nell’aumento dell’investimento in viaggi, vacanze, spettacoli e nella stessa clamorosa moda del cibo e di tutto quanto gli ruota intorno (un dato culturale tipicamente proiettato sul presente, di immediato consumo, che ormai, dalle innumerevoli declinazioni catodiche dei programmi a esso dedicati alle foto dei piatti che condividiamo suisocial con i nostri smartphone, ha acquisito un’invasività inimmaginabile anche solo pochi anni fa). E ancora – e tipicamente – è visibile nella connessione in tempo reale, che ha abolito il tempo, l’attesa, e che ci fa connessi e reperibili in servizio permanente effettivo, e instancabile: messaggianti, whatsappanti, tweetteggianti, emaileggianti e postanti con furore indefesso, senza pause e senza soste (i nuovi programmi social con i messaggi che si autocancellano dopo un certo tempo sono l’esempio plastico di questo rapporto con il presente che si brucia nell’istante, nel con-temporaneo).
Ma possiamo trovare altri indicatori di questa tendenza, non particolarmente sofisticati e in più con il vantaggio di essere facilmente misurabili: dalla propensione al risparmio alla durata dei matrimoni e più in generale dei legami (affettivi, ma anche lavorativi), sono tutti indicatori significativi di questa tendenza, e tutti significativamente in calo – tendiamo a spendere (è interessante riferirsi all’inglese to spend, relativo sia ai soldi che al tempo) tutto sempre più in fretta.
Probabilmente è lecito interpretare e spiegare in questa chiave anche il minore appeal delle religioni: troppo spesso impegnate a procrastinare la gratificazione in un indefinito futuro, che si chiami paradiso o nirvana (forse dimenticando che, ad esempio, nell’insegnamento evangelico il premio consiste nel guadagnarsi «il centuplo quaggiù e la vita eterna», e non solo quest’ultima).
Il rapporto con il passato è completamente cambiato. Da docente, interrogando i giovani adulti che sono i miei studenti, sempre più spesso ho la sensazione che il passato si divida sostanzialmente in due epoche: la preistoria – che è tutto quanto accaduto prima della propria nascita – e la storia, che è quanto accaduto dopo. Ciò che interessa maggiormente, è che la preistoria rimane singolarmente appiattita: come nelle foto con il teleobiettivo, in cui un soggetto a relativa distanza – che so, una nave di passaggio – sembra schiacciato contro una costa assai più lontana, non c’è più profondità, per cui le epoche sembrano tutte più o meno coincidenti, e le datazioni improbe, cosicché l’età dei totalitarismi tra le due guerre mondiali appare altrettanto lontana (o altrettanto vicina) che il Medio Evo o l’Egitto dei faraoni.
Ci avviamo dunque a essere una società senza storia e senza memoria: e questo, paradossalmente, nell’epoca in cui più conosciamo della storia e mai abbiamo potuto avere più memoria – però esterna, stivata nei recessi del web, che ormai contengono tutto il contenibile e, come in un racconto di Borges (che certamente avrebbe scavato in questo paradosso), possono diventare una replica sempre più perfetta sia del tempo presente che del tempo passato.
Il passato è dunque schiacciato, ma anche catalogato e annotato, in una specie di gigantesca memoria esterna, che non ci arriva più per trasmissione diretta (di padre in figlio, o grazie alla scuola), e tuttavia accessibile interamente a chiunque lo voglia recuperare.
Questo cambia, naturalmente, anche il nostro rapporto con il futuro. Ma di questo, forse, parleremo un’altra volta.
[pubblicato su Confronti 06/2019]