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Sri Lanka, i segnali ignorati

by Raimondo Bultrini

di Raimondo Bultrini. Giornalista, corrispondente dall’Asia del quotidiano La Repubblica.

 

C’è un segreto non detto, un mistero che resta irrisolto a un mese ormai dalle stragi contro tre chiese cristiane e tre grandi alberghi nello Sri Lanka con più di 250 vittime innocenti. Una grave sottovalutazione di vari segnali d’allarme, ammessa da quasi tutti i leader politici dell’isola, è per ora la sola chiave di accesso a una dimensione ancora in gran parte inesplorata.

Le stranezze cominciano diversi mesi prima delle odiose stragi, quando il giorno di santo Stefano del 2018 un team del Cid (Dipartimento investigazioni criminali) va a Mawanella nel centro dell’isola per indagare sugli autori delle distruzioni di numerose statue buddhiste. L’episodio ricorda l’inizio della guerra anti-talebana quando vennero fatti saltare i millenari volti dei Buddha di Bamyan e prima ancora vennero rotte decine di antichissime statue conservate nel museo di Kabul.

Anche nel “piccolo” dell’isola sull’oceano indiano l’offesa religiosa era da considerare un segnale allarmante, e infatti. Poche ore dopo aver interrogato musulmani locali preoccupati di ciò che qualche gruppetto di giovani stava combinando nelle loro aree, gli investigatori giunsero in un campo di cocchi nell’area di Puttalam, sulla costa occidentale a nord di Colombo. Sotterrati tra gli alberi trovarono cento chili di esplosivo C4 con altrettanti detonatori, 75 di nitrato d’ammonio e cloruro di potassio, 160 litri di acido nitrico e varie sostanze per gli esplosivi.

Quattro persone vennero arrestate, ma due di loro vennero quasi subito rilasciate «su pressioni politiche», come ha dovuto ammettere poi un ministro del governo di Colombo, Kabir Hashim. Qualunque pressione potesse aver giustificato quella leggerezza, i due scampati al carcere si sono fatti saltare in aria tre mesi dopo con esplosivi analoghi uccidendo molte delle 250 vittime di Pasqua. Non solo. In conseguenza del loro rilascio, già a marzo avvenne un delitto significativo, l’uccisione del segretario del ministro Hashim che aveva collaborato con il Cid a rintracciare chi deteneva gli esplosivi a Puttalam.

Solo più tardi si scoprirà che uno dei politici e imprenditori più influenti nei circoli politici era il ricchissimo padre di due dei suicidi, i fratelli Ibrahim divenuti discepoli online del “predicatore” autodidatta Zahran Hashim (un cognome comune da queste parti) e del suo movimento.

È a questo punto che si colloca il più importante degli avvertimenti scritti su quanto andava preparandosi nei circoli locali del terrore islamico guidati da Zaharn, a quanto pare controllato da tempo dai servizi segreti indiani.L’11 aprile, un rapporto con l’annuncio di commando suicidi contro chiese e alberghi arriva dagli 007 di Delhi alla polizia che lo ritrasmette agli organi di competenza il giorno stesso. Con tanto di nomi, indirizzi e telefoni di militanti clandestini seguiranno altre note, anche a ridosso degli eventi che dieci giorni dopo porteranno Colombo, Batticaloa e l’intera isola all’attenzione preoccupata di tutto il mondo.

Fin dal momento degli attentati suicidi compiuti in sincrono con una organizzazione pressoché professionale, è scoppiata la sindrome collettiva di accerchiamento che ha colto l’intera isola di Sri Lanka, convinta sbagliando di non avere più nemici in grado di preoccuparla dopo la – apparentemente – definitiva sconfitta delle “Tigri” indipendentiste tamil nel 2009. È stato forse per non turbare questa ritrovata quiete che quel giorno di Pasqua non venne schierato l’esercito a proteggere i luoghi indicati con precisione da un rapporto segreto ma accessibile ai vertici? E con la stessa logica, non allarmare il paese e il mondo del pericolo estremista islamico che vennero liberati gli stragisti di Pasqua catturati con l’esplosivo?

Ci sono certo tutti gli elementi che portano a una chiara pista islamica ma le tracce vanno ben oltre, verso decisioni prese in luoghi di quel deep State che usa i conflitti come strumenti di potere per interessi considerati “superiori”, nella logica del fine che giustifica i mezzi. Da quanto emerge dalle indagini e dagli episodi seguiti ai massacri attribuiti ai membri del National Thowheeth Jama’ath, c’è ancora un gruppo di 100-150 fedelissimi e parecchie migliaia di simpatizzanti più moderati. Il gruppo fu fondato nel 2012 nella città orientale di Kattankudy che, con i suoi 50mila abitanti e 63 moschee, è al 100 per cento islamica. Padre putativo un predicatore locale fatto da sé che si è fatto esplodere all’hotel Shangrilà di Colombo, molto seguito sia nelle madrassa dell’est come nelle moschee e sui siti social, considerato a capo dell’intera organizzazione di commando suicidi del 21 aprile.

Zahran Hashim era figlio di un povero venditore di strada con un passato di furtarelli, che trovò riscatto imparando l’arabo e memorizzando il Corano, per poi passare alla letteratura wahabita, alla visione social dei massacri di musulmani in altri paesi come i Rohingya nell’Arakan birmano e i devoti della moschea di Babri in India nel ’92. Ascoltava le prediche di maestri dell’odio online come il tristemente celebre Anjem Choudary da Londra, ma lui le rielaborava visitando i siti dello Stato islamico, parlando con altri maulvi jihadisti nel sud dell’Asia, accumulava carisma e pochi nemici, gli inorriditi moderati islamici, inascoltati dalle autorità.

Gli stessi servizi di sicurezza indiani che segnalarono i preparativi delle stragi scoprirono che Zahran si incontrava con altri militanti nel loro paese facile da raggiungere con le barche del contrabbando, e si è anche addestrato tra Kashmir (terra di un’altra guerra indipendentista), Tamil Nadu e Karnataka. A maggior ragione il ritrovamento degli esplosivi di Puttalam avrebbe dovuto rendere chiaro che qualcosa stava succedendo, da quando nel 2015 saltò in aria nei combattimenti in Siria il primo jihadista dell’isola, Mohamed Muhsin Nilam, divenuto un simbolo da imitare in patria per centinaia se non migliaia di giovani.

Sulla base della rivendicazione dalla Siria e delle bandiere nere ritrovate nei loro covi, con molto esplosivo, armi, detonatori e droni, il Ntj di Zahran è ormai formalmente figlio dello “Stato islamico” di Al Baghdadi che ha infatti elogiato nel suo ultimo video i “martiri” srilankesi indicandoli come guerrieri di Allah. Ma da qui a ritrovare la stessa efficienza del gruppo suicida di Pasqua manca forse proprio quella complicità dall’alto che ha permesso la tragedia.

Di certo i lunghi anni di guerra civile indipendentista non possono non aver lasciato tracce resistenti anche nelle nuove generazioni. I guerriglieri tamil – tra loro i primi suicidi della storia – avevano in gran parte un’educazione induista e si accanirono, oltre che contro i buddhisti cingalesi, anche contro i musulmani: li cacciarono da Jaffna e li colpirono nelle moschee, come avvenne durante il massacro di Kattankudy del 1990 con 147 musulmani morti in preghiera, un episodio attribuito sia alle Tigri Tamil che all’esercito cingalese. Forse è solo un caso se avvenne nella stessa città del futuro “predicatore” Zahran, ma quel giorno suo padre corse assieme a lui a vedere portare via i corpi.

Ora il grande interrogativo è se con la morte di Zahran, la strage della sua famiglia e di quella ricchissima degli Ibrahim che finanziarono in parte gli attentati di aprile, esista davvero nell’isola un numero imprecisato di kamikaze ancora pronti a farsi saltare al momento opportuno come i seguaci di Zahran.

Le stragi sembrano confermare nell’opinione della gente le profezie da incubo di un tentativo d’islamizzazione dell’isola divulgate da monaci fondamentalisti come gli abati del Bodu Bala Sena(Bbs), detto anche “Forza del potere buddhista”.

Ma non risultano per ora altre figure con la stessa capacità di proselitismo di Zahran, che ha convinto a entrare in clandestinità genitori, moglie, figli, sorelle, fratelli, 16 persone saltate in aria pochi giorni dopo le stragi durante l’assalto della polizia al loro nascondiglio nell’est dell’isola, compresi sei bambini tra i quali i suoi. Nemmeno ora questo senso di accerchiamento islamico – sono meno del dieci per cento – sembra corrispondere alla realtà, ma l’esercito potrebbe avere un beneficio mantenendo alto l’allarme per giustificare la sua presenza massiccia su tutto il territorio, con relativo budget, proprietà e società d’affari. Certe logiche hanno sempre dimostrato di essere un’arma a doppio taglio, come accadde nel ‘90 quando l’allora presidente cingalese e l’esercito strinsero un patto con le popolazioni islamiche delle coste orientali per autodifendersi dai tamil, offrendo loro armi e training. Patti analoghi fece più recentemente anche l’ultimo ex presidente Rajapaksa che ha tra i suoi alleati diversi politici musulmani dell’est, tra i quali un tempo il ricchissimo e potente Yusuf Ibrahim, padre di due dei terroristi suicidi di Pasqua. Mentre i suoi figli entravano nel Ntj e predicavano contro ogni altra fede, Ibrahim avrebbe più volte bloccato arresti e indagini con le sue influenze politiche. Ma già nel 2017 i segnali preoccupanti non mancavano, e ancora venivano dall’est musulmano. L’ultima manifestazione pubblica di Zahran con gli altoparlanti contro gli “infedeli” avvenne nella sua città di Kattankudy il 20 marzo del 2017, seguita da scontri tra militanti della sua Ntj armati di spade e bastoni e i fedeli del tollerante sufismo, che ne fecero arrestare sei tra i quali il padre e un fratello del capo suicida, e ne denunciarono la pericolosità. Ma vennero presto tutti rilasciati.

Da quel giorno Zahran entrò assieme al secondo fratello Rilwal in una clandestinità che segna anche l’inizio della preparazione delle stragi, un finale intuibile dal tono degli ultimi mesi di sermoni, sempre più duri, sempre più ferocemente anti-tutto, sempre monitorati dai sufi su Facebook e sottoposti anche alle autorità politiche con lo stesso risultato: nessuno intervenne.

Per avere un’idea del motivo di questo vuoto istituzionale dalle conseguenze tanto gravi bisogna tenere presente il conflitto di poteri avvenuto ai vertici dello Stato nell’immediata vigilia delle stragi. Nel 2015 il presidente Sirisena salì al potere per eliminare il sistema corrotto, semidittatoriale e nepotista dell’ex presidente Rajapaksa, già ex compagno di partito e nemico difficile da battere per la sua aura di eroe nazionale conquistata mettendo fine a quasi tre decenni di guerra contro le Tigri tamil. Il presidente – ancora in carica oggi – riuscì a battere il popolare eroe-dittatore lavorando in tandem con un altro politico deciso a indagare sui crimini civili di quella stessa guerra, Ranil Wickremesinghe, da lui nominato premier.

Ma in pochi anni qualcosa tra i due si è rotto anche per le pressioni di due potenze come Delhi e Pechino decise a investire su questa isola strategica incontrando la resistenza del premier. All’inizio di quest’anno Sirisena ha cercato riportare a capo del governo il suo ex nemico Rajapaksa, però la sua nomina esterna ha provocato la paralisi del Parlamento schierato in blocco con Wickremesinghe, e una sentenza della corte Suprema ha giudicato l’investitura di Rajapaksa illegittima. Risultato, quando quel rapporto di polizia con nomi, indirizzi e telefoni degli stragisti e complici giunse sul tavolo delle varie autorità in conflitto, cadde nel confuso vacuum di un clima di complotti di palazzo. Talmente grave – come dicono gli stessi protagonisti – che il premier e lo stesso presidente restarono ignari di tutte le preziose informazioni che vi erano contenute.

Il ministro della difesa e il capo della polizia sono stati gli unici ad aver già pagato col licenziamento gli errori dalla loro parte. Ma sarà difficile rimuovere chi ha fallito più in alto, e chi fino all’ultimo faceva affari e presenziava a cerimonie assieme al padre di due dei suicidi.

Oggi l’influenza del leader dell’opposizione Rajapaksa sull’esercito è ancora forte, e il suo partito non fa altro che denunciare dai banchi dell’opposizione i tentativi di ridimensionare gli apparati della difesa che sono l’unico baluardo della pace. L’iter delle stragi sembra dargli ragione, anche se fu proprio tra questi apparati che i vari campanelli d’allarme vennero lasciati suonare invano.

AGGIORNAMENTI

Il 12 e 13 maggio si sono verificati, in almeno 24 città dello Sri Lanka occidentale, attacchi a danni di musulmani da parte di persone del gruppo etnico Sinhala. I Sinhala rappresentano circa il 75% della popolazione dello Sri Lanka e sono in prevalenza buddhisti della corrente theravada. Le violenze – perpetrate con pietre, spade e bombe Molotov – hanno provocato la morte di una persona e il ferimento di altre 14, oltre che aver provocato ingenti danni a 540 abitazioni, e negozi appartenenti a musulmani, oltre che a moschee (dati: Fondazione Zam Zam, un’organizzazione umanitaria locale). Le autorità hanno affermato che i responsabili di queste rivolte contro i musulmani sono da ricercare nei vari gruppi buddhisti estremisti operanti sull’isola, che hanno cavalcato l’onda del desiderio di vendetta contro i recenti attentati rivendicati dall’Isis.

[pubblicato su Confronti 06/2019]

Photo: Esequie dei parrocchiani della chiesa di San Sebastiano (Negombo, Sri Lanka)                    © Raimondo Bultrini

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