di Asia Leofreddi
Iniziano così i giorni di Tbilisi
«Questa Assemblea è cancellata, almeno fin quando i delegati russi non lasceranno quest’aula e il Paese». Alcuni deputati di National Movement e di European Georgia, i due partiti georgiani d’opposizione, hanno occupato la sala del Parlamento in cui è riunita l’Assemblea Interparlamentare Ortodossa (IAO), obbligando i delegati stranieri a interrompere i lavori e a riparare in albergo.
Ricoperti dalle bandiere della Georgia e dell’Unione europea e brandendo cartelli con scritto “La Russia uccide”, Tinatin Bokuchava, Salome Samadashvili, Sergo Ratiani, Elene Khoshtaria, Akaki Bobokhidze e altri, hanno approfittato di una pausa dell’assemblea per impossessarsi dell’aula vuota. Dopo essere saliti sullo scranno presidenziale, hanno iniziato a rilasciare dichiarazioni ripresi da decine di giornalisti, appostati sulla balconata dell’aula parlamentare: «I russi occupano illegalmente il 20% dei nostri territori e sono responsabili dell’uccisione di migliaia di persone. Non permetteremo che prendano la parola nel nostro paese, almeno fino a quando la loro occupazione non finirà!». E ancora: «Chiediamo che quest’assemblea esprima la sua solidarietà per l’integrità territoriale della Georgia, dell’Ucraina e della Moldavia». «Vi ringraziamo per essere qui, vi ringraziamo per la vostra solidarietà e comprensione ma – dichiara la Bokuchava – il governo della Georgia non può permettere che un russo, alleato ideologico di Putin e colpevole di aver combattuto in Abkhazia contro la Georgia nel 2008, parli nel nostro Parlamento».
Iniziano così i giorni di Tbilisi. É il 20 giugno e la Georgia inizierà ad essere scossa da numerose proteste anti-russe che, iniziate a causa del discorso del deputato russo Sergei Gravilov in Parlamento, si allargheranno, finendo per riguardare non solo i rapporti con la Russia ma anche il sistema politico interno. Un movimento di piazza di migliaia di persone che, nei soli primi due giorni, porterà al ferimento di 240 manifestanti, alle dimissioni dello speaker del Parlamento Irakli Kobakhidze e del MP Zakaria Kutsnashvili e all’interruzione, su ordine di Putin, di tutti i trasporti economici e commerciali della Russia verso il Paese. Ancora oggi è difficile dire come andrà a finire.
Perché un russo sta parlando in Parlamento?
Il russo a cui fa riferimento Tinatin Bokuchava è Sergei Gravilov, membro del partito comunista russo e presidente dell’Assemblea interparlamentare ortodossa. Il suo viaggio sarebbe dovuto essere un evento apolitico, finalizzato al consolidamento della membership della Georgia nello I.A.O., un ampio network internazionale che raccoglie la maggior parte dei paesi ortodossi, mettendo insieme diplomatici e parlamentari europei e mediorientali. Il suo scopo, oltre al rafforzamento dell’Ortodossia come realtà storica e culturale capace di contribuire alla costruzione di un’Europa unita, è quello di favorire il dialogo tra paesi ortodossi, in particolare in Est Europa, dove conflitti passati e recenti dividono spesso, e non senza violenza, popoli e Chiese.
Questi incontri avvengono ogni anno in una città diversa e seguono l’invito dei paesi ospitanti. Da più di quattro anni si discuteva se farla in Georgia in quanto le tensioni ancora accese con la Russia non erano fonte di buoni presagi. Tuttavia, l’insistenza della rappresentanza georgiana, guidata in particolare da Zakaria Kutsnashvili, parlamentare del partito al governo Georgian Dream, erano riuscite a convincere la segreteria a guida russa e greca dello I.A.O., nella speranza, forse, di contribuire anche all’avvicinamento diplomatico dei due paesi.
Di consueto, essendo un incontro inter-parlamentare, almeno la prima giornata dell’Assemblea ha simbolicamente luogo nel Parlamento del paese ospitante e, come in tutte le organizzazioni internazionali, viene presieduta dal presidente in carica. È stato questo il momento del famoso discorso di Sergei Gravilov, quello che ora tutti i giornali nazionali e internazionali riportano come il coltello che ha riaperto la piaga ancora dolente della Georgia, mobilitando fiumi di persone e facendo da alcuni rinominare questo evento, ormai storico, come “la notte di Gravilov”. A creare scandalo non sono stati i suoi contenuti ma le sue forme: Gravilov, seduto sulla poltrona presidenziale che si rivolgeva al consesso ortodosso in russo, una delle lingue ufficiali dell’Assemblea, incarnava l’immagine dell’occupazione e di una sudditanza storica della Georgia ancora non risolta in piena indipendenza.
Georgia vs Russia: i conflitti in Abkhazia e Ossezia del Sud
L’influenza russa in Georgia è un argomento politicamente delicato e capace di mobilitare i sentimenti di gran parte del Paese. Oggetto del contendere sono in particolare l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, due regioni caucasiche rivendicate dalla Georgia ma de facto indipendenti e fortemente legate alla Russia.
L’Abkhazia è una porzione di terra incastrata tra la Russia e la Georgia, della quale faceva parte come Repubblica Autonoma ai tempi dell’URSS. La sua capitale è Sukhumi, la sua lingua ufficiale è l’abcaso nonostante, vista la presenza di minoranze georgiane, armene e russe, anche il russo è molto diffuso. Quando l’Unione sovietica iniziava a disintegrarsi e la Georgia si avvicinava all’indipendenza, le ostilità tra abcazi – preoccupati di venire “georgizzati” – e georgiani crebbero, fino a sfociare in una sanguinoso conflitto che durò due anni (dal 1992 al 1994), provocando circa 30.000 vittime, soprattutto georgiane, e più di 200.000 sfollati. Il conflitto fu vinto dalle forze abcaze che proclamarono così la loro indipendenza.
Una vicenda analoga è stata quella dell’Ossezia del Sud. Parte di una regione più ampia divisa in una parte settentrionale, Ossezia del Nord (repubblica autonoma all’interno della Federazione russa) e Ossezia del Sud (regione autonoma rivendicata dalla Georgia e de facto stato indipendente) all’inizio degli anni ’90 fu protagonista di un conflitto violentissimo tra l’esercito georgiano, secessionisti sud-osseti e volontari nord osseti supportati da militari russi, che provocò anche qui migliaia di morti e di sfollati. Il 12 novembre 2006 i cittadini osseti votarono con una percentuale di vittoria tra il 98 e il 99% a favore di un’indipendenza dalla Georgia. Tuttavia, Tbilisi non riconobbe l’esito e così neanche il Consiglio d’Europa che, attraverso le parole del suo presidente Terry Davis, definì il referendum “ingiusto” in quanto la minoranza georgiana, sprovvista di passaporto osseto, non aveva potuto partecipare al voto.
Le ostilità si datano quindi lontane nel tempo, ma le relazioni diplomatiche tra i due paesi si sono definitivamente interrotte dal 2008, anno della cosiddetta seconda guerra di Ossezia del Sud, causa della morte di centinaia di persone, tra civili e soldati russi e georgiani. Dopo che Tbilisi lanciò un’operazione militare su vasta scala contro le forze separatiste dell’Ossezia meridionale, accusate di aver bombardato alcuni villaggi georgiani, l’esercito russo invase la Georgia, bombardando obiettivi e occupando vaste aree di territorio. In soli cinque giorni, la Russia sconfisse l’esercito georgiano e le autorità internazionali negoziarono la cessazione delle ostilità. Il 26 agosto la Russia, con un decreto firmato dal presidente Dmitrij Medvedev, riconobbe le repubbliche indipendenti dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia stazionando lì basi militari permanenti. Le due regioni costituiscono il 20% del territorio del paese e Tbilisi e i suoi alleati occidentali hanno denunciato le azioni della Russia come “occupazione militare illegale”.
In realtà i russi non mirano tanto ad occupare il paese quanto ad utilizzare il contenzioso sull’Abkhazia e l’Ossezia del Sud per allontanare la Georgia dalla Nato e la Nato dai propri confini.
L’85% dei georgiani considera la Russia una minaccia politica
È difficile dire se i promotori georgiani dell’evento avessero previsto la potenza simbolica della presenza di Gravilov sullo scranno presidenziale, molto più probabilmente avevano pensato che ospitare l’Assemblea in Parlamento avrebbe rafforzato l’immagine internazionale di una Georgia ospitale, capace di entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico globale. Sicuramente Georgian Dream rispetto ai partiti ora all’opposizione ha sempre dimostrato una maggiore apertura al ristabilimento di rapporti diplomatici con la Russia, finalizzato soprattutto al miglioramento dei legami economici deterioratisi in seguito all’embargo del 2006. Tuttavia, nessun partito in Georgia può definirsi “pro-russo”. L’atteggiamento negativo nei confronti della Russia è infatti uno dei pochi punti in comune che ne unisce la società altrimenti polarizzata. Secondo un sondaggio del 2018 condotto dal Center for Insights in Survey Research, l’85% dei georgiani considera la Russia una “minaccia politica”.
Per questo, nonostante un’accoglienza da Mille e una notte, con buffet e spettacoli danzanti da Cirque du Soleil, nel suo discorso alla cerimonia d’apertura dell’Assemblea, il presidente del Parlamento georgiano Irakli Kobakhidze non aveva potuto non rivolgersi alla platea dicendo: «Le questioni territoriali non sono ancora state risolte. Non è sufficiente abbracciare i valori cristiani, è necessario che quest’unione si trasformi in un’azione politica di solidarietà verso la Georgia e verso tutti quei paesi che vivono la sua stessa situazione. In quei territori ci sono Chiese che sono parte della storia del nostro popolo e che al momento sono minacciate. Noi possiamo cooperare, trovando un posto nella famiglia europea, ma come possiamo resistere agli attacchi contro la nostra gente? Dovremmo discutere queste come questioni del nostro tempo».
Se però quelle di Kobakhidze restavano “parole”, National Movement e European Georgia sono riusciti a dar loro concretezza storica. Visto infatti che l’evento in programma per il giorno seguente in Parlamento così come il ruolo di Gravilov non erano un segreto, i parlamentari di opposizione hanno avuto tutto il tempo di portare avanti un’azione politica pianificata e coperta da tutti i media nazionali, rendendo Gravilov un simbolo capace di accendere gli animi della società civile.
Iniziano le proteste
Si dice siano partite da un post su Facebook o forse, a riaprire le ferite mai sopite, è stato l’assistere in diretta televisiva agli eventi della mattina, fatto sta che verso mezzogiorno i primi gruppi di manifestanti si riunivano già intorno al Parlamento, occupandone la piazza fino a quel momento deserta. Nel frattempo altri circondavano il Radisson Blu, l’albergo a pochi passi dal centro, in cui si era ritirato il gruppo assembleare. Nel ristorante dell’hotel, l’Assemblea decideva per la partenza del presidente e della delegazione russa, la quale lasciava l’albergo dalla porta principale, assaltata dalla folla e protetta da almeno trenta poliziotti.
Quel primo è stato l’ultimo giorno dell’Assemblea, iniziata e finita in una stessa mattina. Dopo infatti vari tentativi di proseguire i lavori in un’altra aula, ricevuto il diniego di ogni autorità, la segreteria preferiva scioglierla e lasciare il tempo ai delegati di tornare nei rispettivi paesi.
Intanto la piazza continuava ad affollarsi fino a raggiungere, la sera di giovedì, il numero di più di diecimila persone. Giovani, vecchi e bambini circondavano il Parlamento, sventolando le bandiere bianche e rosse della Georgia, mostrando cartelli “Russia is invasor” e indossando magliette “Georgia is occupied by Russia”, chissà da quanti anni conservate nell’armadio. Alcuni giravano tra la folla con un occhio coperto da una benda, a rappresentare il 20% del territorio georgiano occupato; altri avevano disegnate croci sul corpo, rosse come il sangue, simbolo di una Georgia orgogliosa e vessata; altri ancora portavano immagini di falci e martello sbarrate, rappresentando il rifiuto non solo della Russia ma anche dell’ideologia che aveva rappresentato. Tra le bandiere alcune americane e europee si mischiavano a quelle georgiane, dimostrando il profondo senso geopolitico di quella protesta e la polarizzazione di una società in cui se non si sta con la Russia si sta con l’Occidente.
Dalla scalinata del Parlamento gli interventi si susseguivano incalzanti, le voci potenti di chi interveniva incitavano la folla in georgiano contro l’occupazione russa e in favore di una Georgia libera e indipendente da qualsiasi influenza sovietica. Si chiedevano le dimissioni di Irakli Kobakhidze, colpevole di aver permesso a Gravilov di sedersi al suo posto; la “liberazione” dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia; e si proclamava la solidarietà georgiana all’Ucraina e alla Moldavia, dove il Cremlino appoggia l’indipendenza della regione della Transnistria.
Tanta la rabbia, montata fino alla violenza. Nella tarda sera del 20 giugno un gruppo di manifestanti è riuscito a superare un primo cordone di polizia entrando nel cortile del Parlamento. Il ministro dell’Interno, Giorgi Ghakaria, aveva avvertito che la polizia avrebbe usato tutti i mezzi legali a propria disposizione se i manifestanti avessero tentato di assaltare il Parlamento e così le forze dell’ordine hanno risposto facendo ricorso ad idranti, gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Durante gli scontri tre persone hanno perso un occhio: le autorità parlano di più di 200 feriti, di cui 80 poliziotti, e 300 arrestati. Numeri da vera battaglia che hanno fatto intervenire anche l’organizzazione internazionale Human Rights Watch, facendo richiedere al governo georgiano un’investigazione interna sull’operato della polizia.
Il giorno dopo: la crisi istituzionale è compiuta
Il giorno dopo, la presidente della Repubblica Salomé Zurabishvili, rientrata in tutta fretta da un viaggio istituzionale a Minsk, definiva un «crimine» la presenza di Gravilov in Parlamento, dichiarando che se lei si fosse trovata in Georgia non lo avrebbe mai permesso. Difficile credere che non lo sapesse, facile immaginare che neanche lei ne avesse previsto le conseguenze. Fatto sta che tra l’immagine di una repressione violenta esercitata dalla polizia e l’abbandono della più alta carica istituzionale, Irakli Kobakhidze e Zakaria Kutsnashvili si sono ritrovati con il cerino in mano. Immediate le dimissioni di entrambi, con la dichiarazione ufficiale di «preferire la pace del Paese alla poltrona». Non si può nascondere che a un osservatore esterno la loro ritirata immediata e senza argomentazione ha lasciato un retrogusto indefinito, l’idea di una democrazia ancora da farsi.
Tuttavia, nonostante la crisi istituzionale e le scuse ufficiali il vaso era ormai aperto. Così, anche il 21 giugno, la protesta è ripresa sempre davanti al Parlamento ma questa volta più tesa e più attenta. Oltre a bandiere, magliette e pirati, in piazza si vedevano giovani vestiti con camici e una croce rossa sul braccio, alla mia domanda «Chi siete?», «Dottori», pronti a soccorrere in caso di necessità. Oltre ai territori occupati, i nuovi interventi riguardavano le violenze della polizia del giorno prima, la richiesta di una riforma del sistema elettorale e la necessità di trasformare la manifestazione in un movimento civile, sganciandosi da qualsiasi collegamento politico. «Siamo noi cittadini di Tbilisi che ci siamo riuniti. A parlare oggi sono attori, giornalisti… senti? Questa è una bambina di quindici anni! Io non voto per nessun partito politico, io sono solo un cittadino di questa città», mi spiega un ragazzo a cui chiedo di tradurmi il discorso concitato di un uomo sul palco.
Il secondo giorno sarà privo di violenza e così anche gli altri. Tuttavia la crisi diplomatica è ormai aperta. In serata arriva la notizia dell’ordine dato da Putin di non far partire più voli russi, né turistici e né commerciali, verso la Georgia. Il giorno dopo in Georgia verrà dato ordine di non trasmettere più film in russo nelle sale cinematografiche delle città e nei giorni a venire verrà predisposto che anche il vino, simbolo georgiano, non percorrerà più le vie verso la Russia.
With compliments
Ancora oggi, a venti giorni dal suo inizio, la situazione non accenna a risolversi. Gli eventi si susseguono incalzanti. Per quanto riguarda la politica interna il governo georgiano ha approvato la riforma della legge elettorale per le elezioni del 2020 ma, sul piano internazionale, le relazioni con la Russia sembrano ormai definitivamente deteriorate.
Il 7 luglio, a una situazione già complicata, si è unito l’intervento del giornalista georgiano Georgi Gabunia che in diretta su Rustavi-2 TV ha insultato il presidente Vladimir Putin e i suoi genitori ormai defunti, costringendo l’emittente televisiva a sospendere la programmazione in seguito alle proteste – russe e georgiane – sotto la sua sede. Il ministro degli Esteri russo ha definito l’ “attacco verbale” del giornalista inaccettabile e anche la presidente della Repubblica georgiana ha condannato le sue parole, definendole provocatorie e contrarie agli interessi del Paese.
Anche l’Unione europea è entrata nell’affaire: il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, in visita l’11 luglio a Batumi per la Conferenza internazionale dedicata al decimo anniversario del parternariato orientale dell’UE, nel suo discorso ufficiale ha definito la decisione russa di cancellare i voli verso la Georgia “ingiustificata e sproporzionata” dichiarando che la UE è solidale con la Georgia e s’impegna affinché la sua sovranità e integrità territoriale vengano rispettate.
Difficile dire come andrà a finire, tuttavia ancora fa impressione il ricordo di una busta lasciata all’hotel Radisson Blue. Un omaggio ai membri dell’Assemblea, in cui insieme ad una bottiglia di vino e a un pacco di churchkela (i tipici dolci di frutta secca georgiani) si trovava un biglietto “with compliments, Irakli KOBAKHIDZE, Chairman of the Parliament of Georgia”, simbolo ormai di un’ospitalità pagata a caro prezzo.