di Giorgio Gomel. Economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace.
L’ ECONOMIA PALESTINESE
La condizione economica dei palestinesi, fra West Bank e Gaza, è molto difficile. La produzione ristagna, un terzo degli individui in età da lavoro è disoccupato, circa il 70% degli abitanti nella striscia di Gaza vive al di sotto della soglia di povertà. I tagli drastici imposti dall’amministrazione americana ai fondi prima erogati sia all’Autorità palestinese (ANP) sia all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) hanno inasprito la situazione. L’ANP ha inoltre subito la confisca da parte di Israele degli introiti generati dai dazi sulle importazioni di beni destinati a West bank e Gaza – che secondo gli accordi economici pattuiti post-Oslo fra Israele e l’ANP Israele trasferisce ai palestinesi. Il governo di Israele ha inteso da tempo dedurre da questi fondi le somme che la stessa ANP eroga alle famiglie di palestinesi uccisi o detenuti per atti di terrorismo nelle carceri israeliane e in reazione a ciò l’ANP rigetta ogni trasferimento di detti fondi da Israele. Ne è conseguita una marcata riduzione di posti di lavoro e salari nel settore pubblico che impiega nelle zone di autogoverno palestinese circa 300.000 addetti e quindi una drastica flessione di redditi e potere d’acquisto. La Lega araba ha convenuto alla fine di giugno di trasferire aiuti per 100 milioni di dollari al mese, in forma di doni o prestiti, all’ANP al fine di contenere il collasso economico in divenire.
LA SOSTANZA DEL PIANO U.S.A.
Il piano illustrato da Kushner nelle riunioni di fine giugno in Bahrein contempla un programma massiccio di investimenti (50 miliardi di dollari), da destinarsi su un orizzonte di 10 anni ad infrastrutture, fonti di energia, istruzione, sviluppo industriale e di incentivi al settore privato in favore (per oltre la metà) dei palestinesi residenti fra West Bank e Gaza; il resto diretti a Giordania, Egitto e Libano, in forma di doni, prestiti agevolati e flussi di capitale privato. I potenziali donatori sarebbero in primis gli stati arabi del Golfo, gli Stati Uniti e altri (indefiniti). Paradossalmente, molti di questi progetti sono quelli che da tempo USAID – l’agenzia di cooperazione allo sviluppo del governo USA – finanziava, e che l’amministrazione Trump ha reciso poco dopo il suo insediamento al potere. Altri sono desunti da precedenti studi della Banca mondiale o del Quartetto. Un patchwork eterogeneo, che molti osservatori giudicano velleitario e impossibile a realizzarsi.
ECONOMIA E POLITICA
La premessa del piano e dell’impostazione ideologica del duo Trump-Kushner è che sviluppo e prosperità economica preludano necessariamente ad una soluzione del conflitto che contrappone Israele ai palestinesi. Sono forse una condizione necessaria, certamente non sufficiente. Il concetto in base al quale la “peace economics” – un complesso di aiuti e incentivi – possa spingere i palestinesi ad abdicare alla nozione di uno stato sovrano, degno di questo nome, ed accettare in cambio una condizione di soggezione politica denota da parte del team cui Trump ha affidato la gestione della questione semplicismo e arroganza intellettuale. Altresì una crassa ignoranza della storia delle trattative fra le parti: nel trattato di pace fra Israele ed Egitto del 1979, così come negli accordi di Oslo e successivi con i palestinesi, la dimensione politica è stata nettamente dominante rispetto all’economia. L’economia palestinese non può espandersi se non si allentano le restrizioni ai movimenti di persone e beni imposte dal regime di occupazione. Nell’area C del West Bank, così definita dagli accordi di Oslo e che ne rappresenta circa il 60% della superficie, dove vivono circa 100.000 palestinesi e gli oltre 400.000 coloni israeliani distribuiti in una congerie di insediamenti, è essenziale consentire quello sviluppo di attività economiche e di investimenti abitativi che invece il persistere dell’occupazione limita e inibisce.
La dimensione politica della trattativa e la ripresa di un negoziato volto a definire lo status finale dei territori è quindi una componente sine qua non di un’azione di mediazione volta a risolvere il conflitto.
Ma su questa – i cui termini quanto alle proposte americane sono rinviati a dopo le elezioni israeliane di metà settembre – gravano gli atti unilaterali e corrivi con la destra al governo in Israele degli ultimi mesi, atti distanti e anzi contraddittori con una tradizione americana di sostegno ad una soluzione basata sull’idea di “due stati per due popoli”: dalla decisione trionfalisticamente conclamata di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme, alla chiusura dell’ufficio dell’OLP a Washington, dall’improvvido sostegno ad un’eventuale annessione delle alture del Golan a Israele al rinnovarsi di affermazioni dell’ambasciatore americano in Israele in favore dell’annessione di parti della Cisgiordania. Atti e il linguaggio spesso offensivo che li sottende tradiscono una posizione americana non più di mediazione equa fra le parti e uno sdegnoso, tracotante rifiuto dei diritti dei palestinesi.
In sintesi, la questione palestinese resta lì, irrisolta e gravida di conseguenze. Israeliani e palestinesi non erano inclusi fra i delegati invitati in forma ufficiale alla conferenza. Erano presenti peraltro uomini d’affari e giornalisti delle due parti, in un’atmosfera descritta da testimoni come “business like”. È manifesto il sentimento di progressi verso l’instaurarsi di rapporti normali fra Israele e gli stati arabi sunniti della regione del Golfo, uniti in una “santa alleanza” in funzione anti- iraniana. Ad alcuni dei despoti al potere in questi stati, l’insistenza dei palestinesi circa il diritto di autodeterminazione in uno stato indipendente è un motivo di fastidio, ma tale irrisolta questione si frappone tuttora al riconoscimento e a un pieno accordo di pace con Israele, malgrado la convergenza oggettiva di interessi contro l’Iran e le ragioni che spingono a cooperare con Israele in campo commerciale, tecnologico e militare.
D’altra parte anche Egitto e Giordania con i quali Israele ha un trattato di pace operante da anni hanno ribadito il loro sostegno alla soluzione “a due stati” e specificamente al piano di pace offerto dalla Lega Araba nel lontano 2002 che prefigura normali relazioni di pace con Israele con il ritiro dai territori, la nascita di uno stato palestinese e un assetto condiviso per Gerusalemme.
Photo: © Israel Ministry of Foreign Affairs/ Kobi Gideon (GPO)