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Dissimulare l’incertezza

by Samuele Pigoni

di Samuele Pigoni. Direttore presso Diaconia Valdese. Si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.

L’incertezza è una condizione connaturata all’essere umano: chiunque ne ha fatto o ne farà esperienza. Eppure molto spesso nella vita in società gli individui tentano di dissimulare tale aspetto per paura delle conseguenze di mostrarsi troppo vulnerabili agli altri.

Ogni giorno ci troviamo di fronte alla sfida della vulnerabilità e dell’incertezza. Dire «ti amo» per primi senza sapere cosa succederà; scegliere un nuovo lavoro senza la certezza di come e quanto durerà; respirare a fondo e mantenerci ancorati in attesa dell’esito di un esame istologico; aspettare che lui o lei ritornino quando ci siamo detti «stiamo distanti per qualche giorno». Sono esperienze banali, quotidiane, che ognuno e ognuna di noi ha vissuto almeno una volta nella vita. Eppure sono esperienze che ci pongono di fronte a una delle sfide più profonde e necessarie della vita: l’impossibilità di prevedere e controllare tutto, il pericolo del perfezionismo, la vergogna che proviamo nel riconoscerci vulnerabili.

La ricercatrice sociale Brené Brown – la sua TED Talk è tra le prime 5 più viste al mondo – sostiene che alla base di tutto ciò che ci impedisce di vivere una vita incondizionata (che significa non soffocata dai condizionamenti, gioiosa, coraggiosa e in connessione con gli altri) non c’è altro che la paura, la vergogna di mostrarci vulnerabili. Ci comportiamo in modi dannosi per noi stessi e per gli altri per non volere apparire deboli, quando in realtà il mostrarci per ciò che siamo, con i nostri pregi e imperfezioni, è ciò che gli altri percepiscono come comportamento coraggioso. In questo senso la vergogna è la paura di perdere la ragione per cui ci meritiamo di essere connessi a altri: «non valgo abbastanza», «mi fregheranno», «non sono abbastanza meritevole di essere visto e accolto da altri». La Brown, nel suo lavoro di ricercatrice sociale, ha intervistato donne e uomini per sette anni ed è arrivata a formulare alcune tesi. Man mano che le interviste andavano avanti si è ritrovata due campioni di persone.

La differenza tra i due gruppi non era certamente tra chi raccontava di avere motivo di sentirsi vulnerabile o imperfetto e chi no: sostanzialmente tutti si autodefiniscono fragili e vulnerabili per una qualche ragione ai loro occhi vitale. La differenza tra i due gruppi era invece tra un gruppo composto da persone che credevano, nonostante il sentimento di fragilità che le abitava, di meritarsi in qualche modo la connessione con gli altri (l’amore, l’appartenza, un qualche merito); il secondo gruppo invece credeva di non meritarselo.

Ciò che ci tiene fuori dalla relazione e connessione con gli altri, cioè da quello sfondo relazionale che solo può rendere la fragilità un varco verso l’autenticità e la crescita, è la paura di non meritarci tale connessione. Lo schema ricorrente tra le persone che credevano di meritarsi quell’amore era un senso di coraggio nell’essere imperfette, di gentilezza e comprensione nei propri confronti e nei confronti delle proprie imperfezioni: una sorta di coraggio nell’abbandonare il proprio sé ideale per abbracciare l’intero campo delle proprie vulnerabilità e che proprio queste stesse imperfezioni fossero motivo di connessione con gli altri. Tutto ciò che ci manca, osservando le migliaia di interviste svolte, sembra quindi essere al cuore della nostra vergogna e paura di non meritarci gli altri, ma sembra essere al tempo stesso la culla per la gioia, la creatività, il senso di appartenenza. Si tratta allora di intraprendere, ognuno con i propri strumenti e con le proprie vie, un lavoro di autoregolazione emotiva che permetta di non addormentare la vulnerabilità, le mancanze e imperfezioni.

Ogni volta in cui sopprimiamo in maniera selettiva le emozioni, evitando paura, solitudine, incertezza, rabbia, senso di isolamento, di fallimento e vergogna stiamo sopprimendo noi stessi.

Fatte le dovute distinzioni, e riportando il discorso su un piano di esperienza spirituale o religiosa, il teologo protestante Paul Tillich parlava di qualcosa di analogo nel Coraggio di esistere (1968): solo avendo il coraggio di autotrascenderci, di fidarci che quanto di noi sperimentiamo come inaccettabile è accettato, possiamo attraversare l’impossibile del dolore, della vergogna, della paura di essere noi stessi.

E lo sintetizza altrettanto bene Walter Benjamin, filosofo dalla vita vulnerabile: «Essere felice, vuol dire potersi accorgere di se stessi senza spavento».

 

[pubblicato su Confronti 07-08/2019]

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