di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Negli anni Cinquanta Firenze era definita da alcuni “piccola Atene”, in virtù di una stagione politica e culturale per molti versi straordinaria.
C’era chi definiva Firenze, nei lontanissimi anni Cinquanta, la nostra “piccola Atene”. Non lo è più da tempo, soffocata dal turismo e dominata dai commercianti che sul turismo prosperano e, di conseguenza, comandano. Firenze era una delle capitali culturali di una democrazia nascente, dentro un paese svegliato dalla guerra e della Resistenza, un paese in crescita.
Era per me la città di Piero Calamandrei fondatore de Il ponte, una rivista che doveva il suo all’ambizione di unire due sponde e il cui titolo credo derivasse dalla distruzione e riedificazione del ponte di Santa Trinita, simbolo della nuova città più del classico Ponte vecchio ai secoli sopravvissuto) e di Giorgio La Pira, ottimo sindaco e gran personaggio pubblico, uno dei pochi nomi gloriosi di una non gloriosa Democrazia cristiana, uno dei pochi cattolici illuminati, della specie dei suoi amici Dossetti, Carretto…
Era anche la città della casa editrice Vallecchi, che pubblicava Gadda e Landolfi, le Cronache di Pratolini e i racconti di Bilenchi, benemerita della cultura italiana assai più di un’Einaudi fin troppo esaltata, e meno libera di quanto non pretendesse, della Giunti devota a Pinocchio e di un’altra fondamentale casa editrice, La Nuova Italia dei Codignola, che pubblicava una collana formidabile di saggi pedagogici teorici e pratici, classici e nuovissimi, e la rivista Scuola e città, legata all’esperienza della Scuola-Città Pestalozzi, una scuola privato/pubblica dove si sperimentavano nuovi modi di insegnare, quando la scuola era ancora considerata da tutti come il luogo fondamentale per lo sviluppo di un’Italia che per la prima volta aveva scoperto la democrazia.
Era la base più forte di due movimenti di insegnanti, il Movimento di cooperazione educativa (Mce) e i Centri di esercitazione ai metodi della scuola attiva (Cemea), dei quali mi onoro di aver fatto modestamente parte. A Magistero insegnava Lamberto Borghi, di cui più tardi diventai amico, come lo diventai di Romano Bilenchi e di Vasco Pratolini e di tanti altri che vi vivevano e la onoravano, da Sebastiano Timpanaro a Michele Ranchetti, che fu amico d’infanzia e di sempre di don Lorenzo Milani. Non ho conosciuto, per mia colpa, don Milani, e neanche, pur frequentandone diversi allievi, don Facibene, che dette un mestiere e una morale a tanti orfani toscani.
Era anche la città di grandi pittori ancora attivi, come Rosai, e perfino di cantanti famosi come Odoardo Spadaro e Carlo Buti, che ne esaltavano le bellezze, e come il più giovane Narciso Parigi che con la canzone Terra straniera fece piangere i nostri emigranti dai juke-box di nuova invenzione, diffusi in tutti i bar europei. Figlio di emigrati in Francia, gliene sono ancora grato, anche se non era certamente un gran cantante né quella una gran canzone…
Mancava solo Palazzeschi, che viveva da tempo a Roma e a cui l’adolescente Pratolini aveva dedicato, mi raccontò, una poesia brutta ma di un’ingenuità commovente, che così cominciava: «Come son belli Palazzeschi e il sole!». Firenze era anche la città della Fiorentina, gloriosa squadra di calcio, e di Gino Bartali, glorioso eroe, con l’amico/rivale Fausto Coppi, dei Giri d’Italia e dei Tour de France.
Bilenchi vi aveva fondato e diretto Il nuovo corriere, finanziato dal Pci ma difendendone l’autonomia e facendone il più aperto, il miglior quotidiano del dopoguerra fin quando il Pci non gli tagliò i finanziamenti per le posizioni antisovietiche assunte al tempo della rivolta polacca, della rivoluzione ungherese…
Quando gli operai della Pignone occuparono la fabbrica, fu lui – mi raccontò – a telefonare al sindaco La Pira sollecitandone l’intervento, e la mattina dopo vide La Pira mettersi alla testa degli operai e occupare con loro la fabbrica, con tanto di fascia tricolore.
Quando andavo a Firenze, e mi capitava molto spesso, la prima cosa che facevo e che ancora a volte mi capita di fare era di recarmi in via del Corno, alle spalle di Palazzo Vecchio, nel vicolo in cui Pratolini era vissuto e aveva ambientato le sue Cronache di poveri amanti, e di passare alla chiesa dell’Annunciata a riverire il roboante e formidabile padre Turoldo, ché i Serviti erano nella città un’altra realtà religiosa originale e importante.
Conoscevo meno, li ho conosciuti più tardi, membri di minoranze religiose che, in molte occasioni, furono all’avanguardia delle novità: i valdesi, dai quali venivano due altri miei “fratelli maggiori”, il pastore Tullio Vinay e la moglie Fernanda, e gli ebrei, una minoranza che aveva perduto tanti suoi membri negli anni della guerra.
Quando oggi nelle mie peregrinazioni peninsulari salgo o scendo a Firenze, città che soffre come tutta l’Italia di tutti i disastri della post-modernità, mi consola ritrovare ancora attivi nuovi e vecchi amici, e tra questi la più cara di tutti, l’indomabile Adele Corradi che fu la più stretta collaboratrice di don Milani a Barbiana e ha scritto su don Milani il libro più bello, Chissà se don Lorenzo. «Se il seme non muore», si dice nella Bibbia.
[pubblicato su Confronti 07-08/2019]
Photo: © Doriano Strologo