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La città post-secolare

by Paolo Costa

intervista a Paolo Costa. Filosofo, ricercatore presso la Fondazione Bruno Kessler (FBK).

[intervista a cura di Asia Leofreddi]

Paolo Costa è un filosofo e ricercatore presso il Centro per le scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Ha curato l’edizione italiana di opere di Charles Taylor, Hannah Arendt, Charles Darwin, ed è l’autore di La ragione e i suoi eccessi (Feltrinelli, 2014) e In una stanza buia. Filosofia e teologia in dialogo (con Davide Zordan, FBK Press, 2014).

Da poco è uscito il suo ultimo libro La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione (Queriniana, 2019). In questo lavoro Costa ricostruisce, per la prima volta in modo sistematico, l’evoluzione recente del dibattito filosofico e sociologico sui rapporti tra religione e modernità. Analizzando le riflessioni di autori come H. Blumenberg, D. Martin, C. Taylor, H. Joas, T. Asad, M. Gauchet, J. Habermas e G. Vattimo, l’Autore si propone di mostrare come negli ultimi decenni sia avvenuto un vero e proprio mutamento di paradigma nella comprensione del tema: «A un certo punto, diventa scontato sostenere il contrario di quello che si pensava prima: cioè che non dobbiamo necessariamente rappresentarci i rapporti tra modernità e religione come l’acqua e l’olio, come due parti che non si mescolano mai, ma abbiamo bisogno di una spiegazione diversa».

Perché nell’Introduzione al suo libro definisce «impossibile» il compito di offrire una panoramica del dibattito recente sulla secolarizzazione?
Il libro tratta un tema talmente complesso e intricato che, fossi una persona un po’ più assennata, avrei fatto bene a lasciarlo nel cono d’ombra accademico in cui era stato sapientemente relegato negli anni Settanta del Novecento. Perché l’ho scritto, allora? Le ragioni, come capita sempre nelle vite umane, sono eterogenee e in parte opache anche a me stesso. Volendo, però, potrei cavarmela dicendo che è nato sostanzialmente su commissione. Diversi anni fa Rosino Gibellini, il direttore della casa editrice Queriniana, dopo avermi sentito parlare del concetto di postsecolarità in Habermas ha avuto l’impressione che il dibattito teologico italiano lavorasse con un’immagine della secolarizzazione ormai obsoleta e mi ha chiesto di scrivere qualcosa di simile a un manuale di aggiornamento per studiosi non svogliati. Il compito, in realtà, si è rivelato più difficile del previsto proprio perché la ricchezza del dibattito imponeva delle scelte metodologiche non banali che mi hanno richiesto anni di lavoro e un’infinità di letture.
Il dibattito, per di più, come capita spesso quando sono in gioco grandi questioni filosofiche, procede a zig zag tra comunità scientifica e sfera pubblica intellettuale. Scherzando, ma non troppo, si potrebbe dire che il concetto di secolarizzazione è una categoria interpretativa che sembra fatta su misura per il cosiddetto «ceto medio riflessivo». Anche per questo il libro comincia con una lunga riflessione sul «mito» della secolarizzazione. La scelta del termine non ha intenti smascheranti. Parlando di «mito» o, come lo chiamo io, «mito-storia» mi riferisco a uno di quei metaracconti con cui cerchiamo di mettere ordine negli angoli dell’esperienza che ci disorientano di più. Personalmente, non solo non ho nulla contro queste grandi narrazioni, ma penso anzi che abbiano un valore non soltanto strumentale. Ci aiutano cioè a capire qualcosa di più sul mondo in cui viviamo, anche se, quando funzionano, non procedono mai in maniera lineare, ma ci costringono a muoverci con un andamento a spirale. Proprio come succede con il Grande Narratore per eccellenza della filosofia occidentale: Hegel.
Ecco, le teorie della secolarizzazione sono anche se non soprattutto strumenti per orientarsi in un mondo – il mondo «moderno» – che è passato attraverso una trasformazione tanto gigantesca quanto enigmatica. E un pilastro di questa Grande Trasformazione è proprio la sensazione diffusa che le fondamenta stesse dell’esistenza umana – il tempo, lo spazio, i desideri, le pratiche, gli immaginari, ecc. – si siano progressivamente allontanate dalla matrice religiosa che le aveva plasmate per secoli e si siano avviate nella direzione opposta – una direzione non facile da identificare, e che potremmo definire appunto mondana, «secolare».

Ne La città post-secolare fa una sorta di cartografia del nuovo dibattito sulla secolarizzazione. Tutti gli autori a cui lei fa riferimento incarnano delle tappe nella revisione di un teorema che per molto tempo era stato considerato essenziale per spiegare l’esperienza del sacro nell’età moderna. Ma quali erano le sue caratteristiche?
L’aspetto paradossale del dibattito che ho cercato di ricostruire in maniera stereoscopica nel libro – paradossale ma non più di tanto se uno ha presente come funzionano le teorie scientifiche in un ambito fortemente indisciplinato come quello delle scienze umane – è che la teoria della secolarizzazione, intesa in senso stretto, è essa stessa in realtà un prodotto della sua crisi. La tesi infatti è stata formulata precisamente soltanto nel momento in cui è stata sottoposta a una critica sistematica. Prima, in effetti, la tesi classica della secolarizzazione circolava, per così dire, come un prodotto (anonimo) dell’intersezione di una serie di visioni generali del progresso umano, il cui collante era l’urgenza di spiegare in maniera unitaria le varie rivoluzioni da cui ha tratto origine la modernità occidentale.
Col senno di poi, comunque, non è difficile capire di che cosa sto parlando qui. Se mettiamo insieme, per dire, la teoria comtiana degli stadi dello sviluppo della società e dello spirito umano (teologico, metafisico, positivo), la tesi marxiano-feuerbachiana della religione come alienazione o oppio dei popoli, la tesi weberiana del disincanto del mondo e la polemica anticattolica degli anticlericali di ogni risma (non importa cioè se protestanti, liberali o anarchici) si può notare in effetti una convergenza intorno all’idea che la «religione» e la «modernità» appartengano a domini diversi, persino opposti, della psicologia e della condizione umana. Così, per dare un senso plausibile alla loro compresenza storica veniva spontaneo ricorrere a una prospettiva evolutiva in cui uno dei due stadi era concepito come il passato e l’altro come il futuro, uno come l’origine e l’altro come la meta.
A dire il vero, le cose non sono mai così semplici. Esiste infatti, una concezione speculare del rapporto tra religione e modernità che io annovero comunque tra le possibili manifestazioni della tesi classica della secolarizzazione. Il carattere originario della religione può essere infatti interpretato in senso inverso se uno colloca la verità nell’origine e vede l’allontanamento dall’origine come una forma di degenerazione. In quest’ottica, la secolarizzazione appare come quel processo storico di lungo periodo che conduce a una sistematica traduzione di contenuti religiosi (ad esempio, la potestas absoluta di Dio, l’orientamento escatologico della storia, il carattere creaturale, cioè contingente, del cosmo) in concetti o concezioni secolari. L’effetto generale è quello di un’ibridazione che, come capita con gli ibridi, può portare sterilità, patologie, persino catastrofi o, al contrario, innovazioni, allargamento di orizzonti, superamento di aporie.
In entrambi i casi c’è comunque una tendenza a proporre letture schematiche, semplificate o, prendendo a prestito un termine chiave della Teoria dei giochi, «a somma zero» del rapporto tra religione e modernità, in cui uno dei due protagonisti deve sempre uscirne delegittimato. È proprio questo elemento che attira l’attenzione dei critici della secolarizzazione, in parte per ragioni contingenti, cioè dipendenti da eventi inattesi della storia recente (l’esempio canonico è la Rivoluzione iraniana), in parte per un generale senso d’insoddisfazione riguardo al mancato effetto di chiarificazione di simili interpretazioni polemiche o apologetiche della religione.

Ma nella Storia è avvenuto o no qualcosa che noi abbiamo il diritto di chiamare secolarizzazione?
Questa è la domanda cruciale, ovviamente. Immagino che in maggioranza i lettori del mio libro si aspettino di concludere il notevole sforzo d’attenzione che pretendo da loro con un po’ di chiarezza almeno su questo punto. Io, però, con sprezzo del pericolo, finisco col chiedere loro di pazientare ancora un po’. Non è per sadismo. È che con le grandi questioni filosofiche funziona sempre così. Per citare Wittgenstein: si vince rallentando. Si vince arrivando ultimi.
Comunque, per essere meno criptici, la mia risposta alla sua domanda è un sì qualificato. Se utilizzando il concetto di «secolarizzazione» intendiamo suggerire che qualcosa di inedito ed enigmatico è accaduto alla religione a partire dal XVI secolo in Europa e poi nel resto del mondo, possiamo farlo con relativa tranquillità. Il problema, però, è dare poi un contenuto determinato a tale affermazione. E per farlo bisogna intendersi su una quantità di questioni di inusuale difficoltà teorica. Che cos’è la «religione»? Che cos’è la «secolarità»? Come si riconosce una transizione storica di questa portata?
Per nominarla sono stati proposti dei vocaboli interessanti. Peter Berger, per esempio, ha insistito molto sul «pluralismo» moderno e sull’effetto che tale pluralizzazione culturale ha avuto sulle credenze personali, accentuandone la riflessività e la fragilità. Questo è sicuramente un punto importante, ribadito da molti studiosi. Personalmente, però, trovo più convincente il modo in cui Charles Taylor e Hans Joas hanno interpretato il cambiamento, ponendo l’accento su quella che ambedue descrivono come la nascita dell’«opzione secolare». Il loro ragionamento procede più o meno così. Se ci immaginiamo quella parte dell’esistenza umana che siamo soliti chiamare religione come un campo di forze (tipo un campo gravitazionale), il fattore che ha cambiato radicalmente i vettori di tale campo di forze spirituali è stato proprio il riconoscimento della possibilità di condurre la propria vita tutta all’interno dell’immanenza (senza uscire cioè da quello che Taylor ha chiamato il moderno «Immanent Frame»). Questa nuova opzione si è affacciata in Europa prima tra le élite (che hanno trovato una fonte d’ispirazione importante nell’epicureismo e nell’atomismo degli antichi) e si è poi progressivamente diffusa negli altri strati della popolazione traendo slancio dalle varie trasformazioni moderne che hanno interessato volta a volta la politica, l’economia, la scienza, la vita sociale, l’arte, il tempo libero, ecc. Al centro dell’opzione secolare, per farla breve, c’è l’immagine di una vita possibile o, se vogliamo, di un nuovo modo di essere persona, in cui i beni della vita smettono di apparire come non autosufficienti, come bisognosi di un sostegno esterno, trascendente. Abbiamo a che fare, insomma, con un’immagine della realizzazione umana, della pienezza personale, della sua intrinseca moralità, antropocentrica in un senso esclusivo.
La comparsa di questa opzione ha finito per trasformare in maniera profonda la dialettica tra le varie posizioni spirituali. Volendo ricorrere a una scena di vita quotidiana per spiegare il carattere culturalmente innovativo della secolarizzazione, potremmo immaginarci il campo delle forze spirituali come una tavola imbandita e la secolarità come un nuovo ospite che si siede a tavola, che mangia senza prima dire preghiere o celebrare riti, che introduce argomenti di conversazione prima inconcepibili, che ha una sua espressività e una sua emotività tutta particolare, che pretende che al tavolo si siedano anche persone che fino ad allora non ne avevano diritto, che si rivolge in maniera diversa ai servitori, che ha da ridire persino sul modo in cui va diviso il conto. Non serve insistere sul fatto che l’effetto che questa nuova presenza è destinata a fare sui commensali è eclatante. Potremmo dire che è il loro stesso orizzonte di senso, lo sfondo tacito delle loro pratiche e consuetudini che si scinde secondo linee di frattura non regolari. Possiamo immaginarci il tutto come una versione un po’ più disordinata del Pranzo di Babette. La trasformazione è imponente, ma il suo senso è indeterminato, aperto a sviluppi anche molto diversi. In qualche caso la convivialità sparisce del tutto. In altri casi si rifonda su nuove basi. Altre volte le tavole si frazionano. L’appetito e il gusto della tavola cresce o diminuisce anche significativamente. In qualche caso, cambia completamente il significato sociale del mangiare insieme.
Uscendo dalla metafora, il punto essenziale è che, concepita così, la secolarizzazione smette di evocare le immagini contrastanti o di un processo di dissoluzione di una finzione illusoria o di una metamorfosi in cui la novità è sempre solo apparente. Ora appare piuttosto come l’inizio di una storia senza precedenti, con un senso tutto da scoprire ed esposta, come tutte le storie umane, ai casi fortuiti della sorte.

Oltre ad essere una disamina del nuovo dibattito sulla secolarizzazione, il suo libro ha anche una vocazione pubblica. Viene offerto cioè al lettore anche come uno zibaldone teorico utile per arricchire le nostre discussioni sulla laicità, sul pluralismo e sullo Stato moderno.
Esatto. Il libro è soprattutto una collezione di idee – buone o cattive che esse siano – che almeno idealmente dovrebbe rendere le nostre discussioni su questioni complicate come il multiculturalismo o la laicità dello Stato – su cui è superfluo aggiungere che è ragionevole avere opinioni diverse – almeno un po’ meno polarizzate e ideologiche. Perciò, anche se il volume ha una sua confezione tradizionalmente accademica, la sua fonte d’ispirazione è il tempo che stiamo vivendo.
L’escamotage di cui mi sono servito per segnalare al lettore l’urgenza personale su cui poggia il ragionamento compassato che sviluppo negli otto capitoli del libro è la «mito-storia» vagamente pasoliniana da cui prende sorprendentemente le mosse la lunga introduzione al volume. Raccontando la storia familiare del trasferimento da un luogo e un tempo noti a uno spazio e un tempo ignoti è un po’ come se suggerissi al lettore incerto di non andarsene perché ciò di cui sto per parlare è un tassello importante dell’autobiografia collettiva di «noi moderni». La «secolarizzazione», in effetti, indica anche una certa forma-racconto con la quale una buona fetta di persone in Italia ha compreso il rapidissimo processo di modernizzazione che ci ha trasformato nel giro di un paio di decenni da un paese in larghissima parte rurale in una nazione sostanzialmente urbana. Così la mia mito-storia è una specie di messaggio nella bottiglia indirizzato al lettore sospettoso con cui gli dico: «Senti, può darsi che alla fine il libro non ti convincerà e magari te ne sbarazzerai con un gesto di stizza perché ti sembrerà inutilmente difficile, ma il punto resta: abbiamo bisogno di strumenti concettuali migliori per trasformare quella storia che ci siamo troppo a lungo raccontati meccanicamente in una rappresentazione migliore di ciò che è effettivamente accaduto».
D’altra parte, come dicevo, se non siamo totalmente ciechi alle ragioni degli altri e ci interessa prendere delle decisioni ponderate riguardo a questioni difficili come quelle che concernono il governo del pluralismo religioso o la relazione difficile tra il principio della laicità dello Stato e l’esuberanza della vita spirituale umana non possiamo prescindere dalle idee migliori che circolano oggi sulla secolarizzazione. In particolare, se, come è giusto, riflettiamo sul fenomeno in una prospettiva globale, senza rintanarci cioè arbitrariamente in una porzione minoritaria del mondo, non possiamo più raccontarci una sola storia, ma dobbiamo ascoltare tante storie diverse. Alla fine, il giudizio che saremo chiamati a dare sul processo storico dovrà per forza di cose essere compatibile con un simile grado di complessità. Quindi, anche se è probabile che ci sia riuscito solo a metà col mio libro, l’obiettivo resta nondimeno quello di fornire una direzione e uno stile di lavoro. La speranza è che, venendoci reciprocamente incontro, riusciremo ad ampliare il patrimonio di ragioni, informazioni e argomenti su cui basiamo le nostre deliberazioni in modo da sbagliare il meno possibile. Voglio dire, si sbaglia sempre in politica, ma almeno cerchiamo di evitare errori grossolani che potrebbero farci uscire dall’orizzonte di una società decente.

In particolare, in che modo una maggiore consapevolezza in merito al dibattito sulla secolarizzazione può arricchire la nostra riflessione sulla laicità?
Tenuto conto dell’orizzonte di secolarità multiple appena descritto, trasformare la laicità in un feticcio non è una mossa intelligente, nemmeno per chi la vuole difendere. Per chi, come me e come molti altri nell’Italia del Dopoguerra, è cresciuto a pane e anticlericalismo sarebbe rassicurante avere a che fare solo con i nemici per antonomasia della laicità: le gerarchie ecclesiastiche che si ergono a difesa dei privilegi della Chiesa cattolica. Quella che ci troviamo di fronte oggi, invece, è una nuova complessità che mette a dura prova la capacità di giudizio di chiunque e che, se viene a mancare il contrappeso di un’opinione pubblica matura, può scatenare reazioni molto pericolose. La mentalità dello scontro di civiltà o della difesa della propria idealizzata forma di incivilimento può giocare brutti scherzi. A me, per esempio, ha colpito molto la reazione dei mass-media ai casi recenti di neonati morti per delle fallite circoncisioni casalinghe. Quando uno ascolta la notizia alla radio, capisco che venga spontaneo reagire con rabbia e disgusto di fronte a un evento che pare negare ogni principio minimo di civiltà. Insomma, come si fa a intervenire sul corpo di un bambino per motivi che nulla hanno a che fare col suo benessere fisico? Ma come si permettono? E così uno se la prende con le religioni. E poi a quella pratica arcaica, ovviamente, viene automatico affiancare il nome della religione attualmente più aborrita, che è ovviamente l’islam. Il fatto, però, è che basta scavare appena sotto la superficie per capire che in casi del genere è difficilissimo distinguere tra il carattere religioso o culturale (addirittura tribale) di una pratica che non fa altro che iscrivere sul corpo vissuto un’identità problematica, che è poi esattamente quello che ci troviamo quotidianamente davanti agli occhi quando contempliamo con stupore i tatuaggi, le abitudini alimentari o l’ossessiva cura estetica delle persone che popolano le nostre città e che, se solo ci fermiamo a rifletterci un attimo, ci sono allo stesso tempo trasparenti e opache.
Questo è solo un esempio della confusione con cui siamo costretti a convivere ai nostri giorni. Vivere in un’epoca di orizzonti fratturati significa infatti non sorprendersi più di tanto di fronte alle strane alleanze che intersecano perpendicolarmente i fronti politici a cui eravamo abituati nel Novecento. Così una volta che il nemico numero uno diventa l’islam, i difensori dell’identità cristiana possono tranquillamente schierarsi a sostegno del principio di laicità che ora reinterpretano come un frutto spontaneo del dualismo cristiano tra trono e altare. E lo stesso avviene con la rivendicazione dell’emancipazione femminile come il prodotto di una presunta civiltà della libertà che si contrapporrebbe frontalmente alle civiltà dell’eteronomia. Una esaltazione reattiva, escludente, di valori o principi che per secoli sono stati in realtà al centro di lotte fratricide non mi sembra una buona notizia per il futuro delle democrazie occidentali, che avrebbero invece bisogno che venisse infusa nuova linfa in una pianta – quella della partecipazione attiva alla vita civile – che si sta troppo rapidamente inaridendo.
Vogliamo veramente pagare un prezzo così alto alla nostra fedeltà a una cristallizzazione procedurale del principio di laicità, basata a sua volta su un’interpretazione del processo di secolarizzazione che non ha retto all’effetto corrosivo della critica empiricamente informata? È questa la domanda che vorrei si facessero più spesso le persone che dibattono pubblicamente di questi temi. Non sto dicendo che uno debba sposare acriticamente il punto di vista dei decostruttori del teorema della secolarizzazione – cosa che il mio libro, per altro, è ben lungi dal fare – l’obiettivo è un altro. Come dicevo sopra, si tratta di arricchire il nostro equilibrio riflessivo. È arrivato il momento, cioè, di far circolare nuove idee, nuovi punti di vista, nuovi modi di raccontare il passato, che potranno in futuro entrare a far parte del nostro senso comune, allo stesso modo in cui ne fanno parte oggi principi che solo due secoli fa nessuno immaginava sarebbero potuti diventare un patrimonio collettivo. D’altra parte la storia umana è anche capace di sorprenderci. Per nostra fortuna non è solo il teatro in cui si ripropone sempre identica a se stessa la follia umana.

[pubblicato su Confronti 07-08/2019 in versione ridotta]

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