di Fabrizio Battistelli, autore del volume La rabbia e l’imbroglio. La costruzione sociale dell’immigrazione, in uscita da Mimesis.
Che, a forza di tirarla, anche la corda della demagogia e della prepotenza si possa rompere, è la prima osservazione che ispira la crisi del governo gialloverde. D’altro canto il fallimento di una risposta sbagliata e pericolosa è una buona notizia ma non è di per sé la soluzione di un problema. Visto che il lavoro da fare resta imponente, tanto vale cominciare riflettendo su che cosa non va, non soltanto nel modo di ragionare dei critici della democrazia ma anche in quello dei suoi sostenitori.
L’interminabile campagna elettorale di Salvini – fattore del suo successo ma anche della reazione di rigetto che ha provocato – aveva trovato nel binomio immigrazione/sicurezza il suo piatto forte, rispetto al quale tutti gli altri temi erano stati ridotti a fare la parte dei contorni. Quello migratorio è un fenomeno che, oltre a tutte le implicazioni etiche e giuridiche, presenta un quadro molto complesso di costi e di benefici di natura politica, sociale ed economica. La ricetta del ministro dell’Interno invece era semplice: dapprima l’immigrazione era stata ridotta a un problema di mera sicurezza, poi la stessa sicurezza era stata ulteriormente rimpicciolita alla (quantitativamente marginale) dimensione degli sbarchi. Mentre tutti gli altri aspetti sono stati ignorati (dai flussi regolari alla sicurezza in mare, dagli arrivi autogestiti con i barchini ai rimpatri), l’arma-fine-di-mondo imbracciata dal leader della Lega è stata la chiusura dei porti.
Tutto questo dimostra che, al di là delle chiacchiere, destra e sinistra esistono ancora, così come esistono, ben visibili e decisive, le loro differenze. Per chi condivide l’impostazione progressista è naturale respingere la confusione tra immigrazione e sicurezza, che in Italia è stata perversamente perseguita dal decreto Salvini del novembre 2018, raddoppiato nel giugno 2019. Ciò non dovrebbe significare, però, ignorare l’una e l’altra questione. Negare che la sicurezza sia un bene comune da garantire ai cittadini e l’insicurezza una menomazione gravida di conseguenze negative non impedisce ai populisti di appropriarsene, millantando di essere quelli che tutelano la prima, mentre nei fatti si avvantaggiano della seconda. Detto questo, la differenza tra destra e sinistra esiste eccome. Non, come erroneamente crede qualcuno, nel senso che determinate questioni sono di per sé reazionarie (la sicurezza) e altre sono di per sé progressiste (l’immigrazione); bensì nel senso che ad ogni questione, e quindi tanto alla sicurezza quanto all’immigrazione, è possibile dare una soluzione di destra oppure una di sinistra.
In materia di immigrazione la destra tende a rivendicare l’interesse nazionale che tuttavia, nell’interpretazione del populismo italiano, non è una sia pur discutibile forma di bene collettivo (la “America first” di Trump), bensì è l’interesse vero o presunto di una miriade di individui atomizzati e isolati dalla paura (“prima gli italiani” di Salvini). In ciò il governo giallo-verde ha mostrato tutti i suoi limiti. Il primo in ordine di tempo riguarda la pretesa di affrontare un processo di portata planetaria come le migrazioni, semplicemente manipolandolo. La manipolazione è la strategia nei confronti di un fenomeno che non soltanto si è incapaci di affrontare ma che, anche, non si vuole affrontare. Questa è stata la strategia di Salvini, che, ministro dell’Interno per quattordici mesi, su cinque incontri indetti con i suoi omologhi europei ne ha disertati quattro, ha affondato l’operazione europea Sophia che assicurava il pattugliamento del Mediterraneo centrale e si è rifiutato di mettere in discussione il regolamento di Dublino che è vessatorio per l’Italia.
Per i seguaci del sovranismo (neologismo per nascondere quel vecchio arnese della storia che è il nazionalismo) affrontare l’immigrazione a livello europeo è troppo costoso. Farlo significherebbe per loro pagare due volte un prezzo salato: la prima per la perdita di un formidabile fattore di consenso agli occhi del proprio elettorato e la seconda per la plastica visibilità del dissidio che mina alla base le alleanze tra nazionalisti. Cercare soluzioni efficaci in materia di immigrazione, con ciascun paese che elabora una politica condivisibile con i vicini, è una sfida difficile per Salvini e per gli altri governanti del gruppo Visegrad, per un motivo molto semplice. Significherebbe sacrificare qualcosa delle pretese nazionali, sia in favore dei paesi più coinvolti, come quelli che si affacciano sul Mediterraneo (innanzitutto accogliendo quote degli immigrati che arrivano), sia in favore di un’autorità europea in grado di affrontare insieme questi e altri problemi. Come sempre accade con le varie forme di nazionalismo, cioè con l’atteggiamento politico che assolutizza gli interessi e le visioni di un’unica nazione (la propria), i sovranisti non possono né vogliono praticare il terreno delle proposte e delle soluzioni. A questo punto concentrano l’azione nell’ambito in cui performano meglio, vale a dire nelle politiche simboliche, a loro volta basate sulle polemiche, sui proclami e sugli allarmi veri o presunti. Una strategia che sembra vincente in quanto esporta i problemi all’esterno (mettendo in conflitto il proprio paese con i partner) mentre all’interno fa guadagnare facili consensi.
Per anni nelle piazze italiane, in tv e soprattutto sui social Salvini ha chiamato “il popolo” alla riscossa contro l’“invasione” straniera di migranti e richiedenti asilo favorita dalle ONG, complici dei trafficanti di uomini. A lungo andare il martellamento ha avuto successo e ha capovolto il clima di simpatia che esisteva inizialmente nei confronti delle organizzazioni umanitarie che salvavano vite umane. Secondo il sondaggio IPSOS pubblicato sul Corriere della sera del 6 luglio 2019, il 59% di un campione della popolazione italiana approvava il divieto degli sbarchi dei migranti soccorsi in mare e solo un 29% vi si opponeva. In realtà la “gente” non ritiene che l’Italia non sia più in grado di accogliere migranti (ci crede solo il 28% degli intervistati), bensì vorrebbe coinvolgere gli altri paesi europei (71%). La domanda dell’opinione pubblica non è illegittima di per sé, il rischio è che, se non verrà gestita in maniera responsabile, l’intera questione continuerà a precipitare lungo la china delle ripicche nazionali, in Italia e in Europa.
Qualunque formula di governo alternativa al fallimento del governo a propulsione salviniana non potrà non fare i conti con un dato preoccupante: i guasti provocati dai neo-nazionalisti sul senso comune dei cittadini. Le elezioni europee hanno mostrato che rabbia e paura sono particolarmente diffuse in paesi che, come il nostro, sono gli ultimi arrivati in materia di immigrazione. In generale, poi, il richiamo della destra miete consensi negli strati più sfavoriti della società, spesso delusi dalla politica e sfiduciati nei confronti dei partiti tradizionali. Soprattutto, gli strati più vulnerabili della popolazione appaiono spaventati dall’idea di perdere il relativo benessere conseguito grazie allo Stato sociale. Come ha osservato Ulrich Beck, nella contemporanea “società del rischio” le persone non hanno più fame ma hanno paura: “il popolo dell’ansia prende il posto del popolo della fame”.
Abituata ad approfondire il dibattito, e ancora più spesso le divergenze, la sinistra italiana si conferma divisa tra due posizioni in materia di immigrazione. La sinistra radicale, che ribadisce la ragione umanitaria come unico criterio politico, e la sinistra di governo, che cerca di conciliare la ragione umanitaria con l’interesse nazionale ed europeo. Come non bastasse, a questa divergenza storica se ne è recentemente aggiunta una terza, in un’estate resa ancora più torrida dai continui rilanci di Salvini. In un crescendo inarrestabile, le polemiche del Capitano hanno investito non soltanto tradizionali “nemici” come le ONG ma perfino altre istituzioni dello Stato, dalla magistratura alle Forze armate, colpevoli di fare il loro mestiere.
Anche il Partito Democratico ne ha fatti di errori. Mentre Salvini attaccava chiudendo i porti, c’era chi tra gli esponenti del PD stigmatizzava “l’allarmismo sugli sbarchi” e la “mancanza di coraggio sui valori”. Nel primo caso Renzi si riferiva all’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, per aver considerato una “minaccia alla democrazia qualche decina di barche che arrivava in un paese di 60 milioni di abitanti”. In realtà, se è criticabile l’accordo con Tripoli per trattenere i migranti africani senza aver prima garantito le condizioni legali e materiali del loro trattamento, non si può sottovalutare che nel 2016, al culmine di un triennio di arrivi massicci, gli sbarchi in Italia avevano raggiunto la cifra record di 181.000 persone, con un forte impatto nella società e nelle istituzioni. Quanto alla “mancanza di coraggio sui valori”, il riferimento è alla mancata presentazione al Senato del decreto sulla cittadinanza ai giovani immigrati di seconda generazione da parte del governo Gentiloni. Giustissimo ma è necessario ricordare che il cosiddetto ius culturae (la cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che avevano frequentato almeno cinque anni della scuola italiana) era stato approvato il 13 ottobre 2015 e quindi aveva avuto ben due anni per essere sottoposto al voto del Senato.
Sforzandosi, in una fase di pur confuso passaggio come l’attuale, di essere ottimisti, sono altrettante occasioni per riflettere su un tema fondamentale come l’immigrazione e, perché no, su un altro tema difficile e importante come la sicurezza. In questi ambiti, sfortunatamente, la sinistra si è mostrata e si continua a mostrare divisa quando tutto, nella situazione specifica e generale attraversata dal nostro Paese, indurrebbe a unire gli sforzi di conoscenza, di analisi e di proposta per una possibile alternativa.