di Sabino Cassese. Giurista e accademico italiano, giudice emerito della Corte costituzionale.
Giurista e accademico italiano e giudice emerito della Corte costituzionale, Sabino Cassese risponde alle nostre domande nell’ambito della XVIII edizione de I dialoghi di Trani. Come ripensare in Italia al nesso fra rappresentanza e governabilità? Le democrazie rappresentative sapranno reggere ai colpi del populismo? Quale il ruolo dell’Europa?
[intervista a cura di Asia Leofreddi]
Nell’ambito della XVIII edizione de I dialoghi di Trani, abbiamo incontrato Sabino Cassese, giurista e accademico italiano, nonché giudice emerito della Corte costituzionale. Ha contribuito alla definizione dell’amministrazione pubblica europea, nella veste di presidente dell’European Group of Public Administration dal 1987 al 1991, collaborando poi con l’Ocse alla riforma delle amministrazioni pubbliche dei paesi dell’Europa centrale ed orientale. Agli inizi del 2016 prende posizione a favore del sì al referendum confermativo della Riforma costituzionale Renzi-Boschi.
Ha scritto manuali di diritto amministrativo, di diritto pubblico e di diritto pubblico dell’economia, volumi ed articoli sulle imprese pubbliche, sulla proprietà pubblica, sui sistemi creditizi, sull’intervento statale in economia e sulla cultura amministrativa. Fra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: Lezioni sul meridionalismo. Nord e Sud nella storia d’Italia (Il Mulino, 2016); La democrazia e i suoi limiti (Mondadori, 2017); La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia (Il Mulino, 2019).
Quale ruolo possono svolgere momenti come quelli del festival I Dialoghi di Trani per promuovere cultura, dialogo e una maggiore coesione sociale?
Questa e le molte altre iniziative che stanno fiorendo in Italia svolgono una importante funzione di istruzione in un Paese che ha un deficit di educazione, a causa del fatto che una buona metà della popolazione rientra in una delle tre categorie degli analfabeti, degli analfabeti di ritorno e degli analfabeti funzionali. La scuola e le università non bastano. Serve anche questo fiorire di iniziative culturali, migliaia in Italia.
Dalle ultime vicende politiche nel nostro paese ne esce un’immagine non solidissima: come possiamo pensare, nel futuro, il nesso tra rappresentanza e governabilità?
Questi due sono i criteri riassunti dalla Corte costituzionale quali funzioni delle leggi elettorali. La fase che stiamo attraversando è di passaggio, perché l’accento cade sulla rappresentanza piuttosto che sulla governabilità. Questo secondo fine è però importante, se si considera che il governo Conte bis è il 66° della Repubblica.
Sulla rappresentanza, bisogna ricordare che stiamo cambiando continuamente leggi elettorali, che debbono invece essere longeve. Esse sono il modo per tradurre voti in seggi. Rappresentano una convenzione per operare questa “traduzione”. Ci si deve metter d’accordo e rispettare nel tempo l’accordo.
Le forme di populismo sembrano crescere, seppure a fasi alterne, un po’ in tutto il mondo: secondo lei stiamo assistendo ad una metamorfosi irreversibile della democrazia liberale e rappresentativa o si tratta di crisi estemporanee?
La tensione che stiamo vivendo tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa non è ignota. Si è presentata in momenti diversi in numerosi sistemi politici, ad esempio negli Stati uniti d’America nell’Ottocento, quando nacque il People’s party, prima formazione che può esser chiamata populistica. Ritengo quindi che le democrazie rappresentative sopravviveranno a questa fase di tensione.
Una delle richieste che emerge con più forza dai cittadini è quella di “più democrazia”. Ma quali sono i limiti della democrazia diretta?
Vi sono due problemi. Il primo riguarda le esperienze di referendum in Paesi come California e Svizzera. Da un lato, sono esperienze fiorite a livello sub-statale. Dall’altro, vi è stato un abuso di ricorsi ai referendum, da parte di lobbies, con gravi danni per il bene collettivo. Il secondo problema riguarda lo scarso ricorso a quello che si chiama democrazia deliberativa o partecipativa, a livello amministrativo.
Si guarda alla crescita dei partiti populisti (soprattutto di quelli di estrema destra) come ad una minaccia per l’Unione Europea e le sue istituzioni. Tale pericolo potrebbe spingere la Ue a rimediare con più urgenza ai suoi limiti?
Penso che valga il contrario: l’Unione può essere un contro-limite per tener sotto controllo partiti populisti. L’esempio recente italiano insegna molto (il secondo governo Conte nasce appoggiandosi all’Unione, a differenza del precedente governo). Lo stesso riguarda gli esempi di Polonia e Ungheria, sui quali l’Unione sta esercitando una importante pressione di tipo giurisdizionale.
A suo avviso quanto siamo lontani da un’Europa politica? È ciò a cui dovremmo aspirare?
Abbiamo già una Unione politica, anche se ha poteri finanziari importanti, regolatori enormi e fiscali limitati. Penso che occorra essere ottimisti sugli sviluppi futuri, perché l’allargamento delle funzioni dell’Unione è stato continuo negli ultimi 60 anni.
Tra i vari problemi che le democrazie si trovano ad affrontare vi è quello del crescente pluralismo religioso delle nostre società. Qual è la sfida che questo pluralismo pone al nostro ordinamento giuridico nazionale?
Non rappresenta un enorme problema, perché la Costituzione già contiene una norma relativa alle diverse confessioni religiose, accanto a quella cattolica.
Come immaginare una piena libertà religiosa, che sia libertà di credere e non credere, e che superi ogni forma di discriminazione? Crede che questo tema sarà centrale nei prossimi anni?
Centrale non solo nei prossimi anni perché il mondo diventa sempre più pluralistico, complesso, multireligioso. Dobbiamo abituarci a società multietniche, così come dobbiamo adattarci ad avere multiple identità. Insomma, dobbiamo imparare ad non ragionare per esclusività di appartenenze, etnie, religioni, culture.
[pubblicato su Confronti 10/2019]
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