di Fulvio Ferrario, Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma, e Giuseppe Lorizio, Professore di Teologia fondamentale e metodologia teologica presso la Pontificia Università Lateranense.
Dall’articolo del teologo romano cattolico Giuseppe Lorizio apparso su Avvenire lo scorso 13 settembre è nato un confronto con il teologo protestante Fulvio Ferrario sui temi del “ritorno del sacro” che in Italia si manifesta attraverso l’appropriazione per uso politico – talvolta populista – di simboli religiosi. Quale dovrebbe essere il ruolo della teologia?
[intervista a cura di Claudio Paravati]
Il teologo romano cattolico Giuseppe Lorizio il 13 settembre scorso, su Avvenire, ha scritto un articolo dal titolo È necessaria una teologia politica. La fede che davvero ci segna ci ispira, dove prende posizione nei riguardi del “ritorno del sacro” che in Italia si manifesta anche attraverso noti episodi di appropriazione dei simboli religiosi per uso politico, talvolta “populista”. La teologia in questo quadro, secondo Lorizio, dovrebbe riprendere il proprio posto e ottemperare al proprio ruolo peculiare. Quale sarebbe tale compito?
Nel numero di Confronti di novembre, il teologo protestante Fulvio Ferrario si associa a tale istanza di concretezza da parte della teologia. Egli precisa, però, che “concreto” per la teologia, è anzitutto “Il Dio trinitario che si rivela in Gesù”.
Qual è il rapporto tra l’esigenza, espressa da Lorizio, di una teologia che intervenga nel dibattito pubblico discutendone criticamente l’uso della simbolica religiosa, e l’istanza di Ferrario, secondo il quale la secolarità del dibattito politico, paradossalmente ma non toppo, è promossa proprio da una chiesa e da una teologia capaci di parlare della rivelazione di Dio nel mondo? Per discutere insieme di “teologia e società” abbiamo rivolto le domande a entrambi i teologi, mettendoli a confronto.
Pare che l’analisi di fondo tra voi coincida. C’è un deficit teologico: nei paesi latini un “analfabetismo teologico”, “religioso” oseremmo dire; e nei paesi del centro Europa una teologia accademica, distaccatasi dal “mondo”. Che cosa dovrebbe dire, a vostro parere, una chiesa teologicamene avvertita e consapevole della propria responsabilità “politica”?
Lorizio: In ambito romano-cattolico al momento si registra una reciproca diffidenza fra coloro che praticano la teologia accademica e quanti sono impegnati nella pastorale e nella carità. Una prima fondamentale consapevolezza potrebbe aiutare entrambi a convergere intorno alla necessità di “pensare la fede”. Tale consapevolezza si esprime nella convinzione che il luogo della teologia non è l’università o la facoltà teologica, ma la chiesa stessa, laddove la parrocchia è anche una scuola, perché la fede è anche conoscenza. La sporgenza politica di tale consapevolezza farà si che le comunità possano esprimere la loro predicazione, catechesi, azione sempre con in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale, secondo la felice espressione di Karl Barth, e pertanto non lascino intervenire soltanto i pastori sulle questioni etiche che di volta in volta la politica pone alla fede, ma che siano i laici ad esprimersi. Laici da formare teologicamente perché abbandonino forme di fondamentalismo o di relativismo etico.
Ferrario: Posso solo essere completamente d’accordo e non solo perché il collega Lorizio cita Karl Barth. Nelle chiese evangeliche Italiane mi sembra di avvertire una diffidenza inespressa, ma non superficiale nei confronti della teologia. Capita spesso di udire, anche da parte di pastore e pastori, contrapposizioni tra teologia e “concretezza” e anche, come dice il prof. Lorizio, tra teologia e pastorale. In tal modo si mostra di ritenere dottrinaria la teologia e si banalizza la pastorale. Detto questo, mi sembra evidente che la teologia si declina nell’università e nella comunità in forme che possono essere diverse: non però per quanto riguarda il loro tema, semmai per le modalità di espressione.
Sembra riemergere il tema della “laicità”. È così, oppure la questione si è nel frattempo esaurita?
L: Indubbiamente. Il problema, parlo sempre dell’ambito romano-cattolico, è che con l’espulsione della teologia dalle facoltà dello Stato in Italia soprattutto ha prodotto una clericalizzazione del sapere teologico e l’adozione della formula “teologia per laici”, quasi a significare un sapere “di serie B”, affidato non alle Facoltà teologiche, ma ai cosiddetti Istituti superiori di scienze religiose. Il passaggio che si fa molta fatica a far comprendere e a realizzare è quello dalla teologia per laici alla laicità della teologia, come sapere pubblico e strutturato, che sappia parlare alla polis, oltre che alla chiesa. Nel frattempo nell’ambito pubblicopolitico, in Italia, hanno preso il sopravvento forme di devozionismo, ritenute utili più all’acquisizione del consenso che alla ricerca di soluzione dei problemi.
F: Devo ammettere di nutrire un certo imbarazzo nei confronti della nozione di “laicità”, perché la vedo usata, anche in ambito evangelico, in accezioni molto diverse e dunque non sempre in modo tale da chiarificare la discussione. E così mi vedo sorpassato, per così dire “a sinistra” da Lorizio, che rivendica una laicità della teologia! Forse dipende dal fatto che in casa cattolica emerge effettivamente l’esigenza di sottolineare il rapporto della predicazione con il mondo e la storia; nella mia chiesa io sento in questo momento l’esigenza di annunciare l’opera di Dio nel mondo. Ma non sono posizioni opposte, e nemmeno accenti sostanzialmente diversi. È che la situazione immediata nella quale si vive a volte condiziona il linguaggio.
Per quanto riguarda l’“assordante silenzio” sulle strumentalizzazioni dei simboli religiosi, una considerazione. In generale, tenderei a sfumare un poco la severità del mio collega. A volte si tace per evitare un discorso che appare a buon mercato, di fatto costretto ad accettare il piano sciatto e volgare dell’interlocutore tribunizio: esiste, cioè, un silenzio qualificato. È verissimo, però, che esso ha i suoi limiti, anche nel tempo. Esiste un difficile equilibrio tra il silenzio e la dichiarazione roboante quanto, in fondo, sterile e un po’ salottiera. A me è capitato spesso di sbagliare sia in un senso, sia nell’altro. Nel suo intervento su Avvenire, invece, Lorizio esemplifica bene il giusto equilibrio.
La laicità intesa come laicismo non sembra aver funzionato; ma perché non dovrebbe funzionare la laicità come neutralità? Se non è neutrale significa che deve farsi carico di qualcosa: deve essere di azione, di sostegno, “per addizione”… benissimo: ma chi sostiene chi?
L: L’ormai san John Henry Newman sosteneva che in materia di religione non si può essere neutrali. Il politico non può porsi in una situazione di equidistanza rispetto alle appartenenze culturali della gente che rappresenta e non può ignorare la storia, che ha segnato e segna il nostro presente e, si suppone, continuerà a pesare sul nostro futuro. D’altra parte non si può negare che la politica è per essenza “mediazione”, qualcuno dice anche “compromesso”. Pertanto i valori religiosi ed etici non vanno proposti come piovuti dall’alto, ma attraverso l’esercizio faticoso della ragione e del dialogo.
In tal modo potrà realizzarsi il famoso loghion di Gesù di Nazareth, che invita a “restituire” a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. A me piace interpretare la parola del Signore nel senso di «restituite a Cesare ciò che è di Cesare per poter restituire a Dio ciò che gli appartiene», cioè tutto. Con tale inclusione l’impegno politico entra nel culto e ne diviene parte irrinunciabile, altrimenti la stessa liturgia rischia di diventare evasione dal quotidiano e separazione dalla vita concreta della gente.
F: Esiste una misura di neutralità religiosa dello stato che, a mio avviso, è irrinunciabile. Ad esempio, io non sono a favore del crocifisso nei luoghi pubblici. Non perché, come insinuava un polemista cattolico, non abbia il coraggio del mio cristianesimo (oltretutto, non ce ne vuole molto, per appendere crocifissi in Italia, oggi), ma perché in una società pluralista si pone una questione di parità di condizioni per le diverse fedi nel loro rapporto con la società. Guai, però, se questa neutralità minimale si trasforma nel tentativo di confinare l’espressione della fede nella sfera privata e nell’assolutizzare il linguaggio “laico” come l’unico che abbia cittadinanza nella sfera pubblica. Uno come Habermas, che non è precisamente un chierichetto, ha sollevato obiezioni precise a tale atteggiamento. Non credo che il confine possa essere individuato una volta per tutte, si può solo procedere per tentativi ed errori.
A me piacerebbe che questi temi fossero oggetto di un confronto ecumenico: tra un protestantesimo che rinunci una volta per tutte a un anticlericalismo pregiudiziale e un cattolicesimo che eviti, quando si arriva al dunque, di difendere con le unghie e coi denti gli spazi, che io chiamo di privilegio, che ancora gli restano.
Ferrario suggerisce come la difficoltà di parlare di Dio derivi sostanzialmente da una secolarizzazione all’interno delle chiese stesse: professor Lorizio, condivide quest’analisi?
L: Dipende da quale paradigma di “secolarizzazione” si intenda adottare. Nella prospettiva classica, semplificando, che interpreta la secolarizzazione in chiave di sostituzione della sfera religiosa con quella socio-politico- culturale, la problematica incrocia anche alcune roventi critiche che il cattolicesimo tradizionalista rivolge verso papa Francesco, contestandogli di aver sostituito la fede con l’azione sociale. E, anche qualora si adottasse il paradigma luhmanniano della differenziazione funzionale, allora la chiesa risulterebbe omologata alle Ong di mutuo soccorso, trasformandosi nella “multinazionale del conforto”, in quanto perderebbe la differenza/distanza dal mondo.
Quanto alla questione di Dio in sé vorrei richiamare un quesito postomi da un lettore di Famiglia cristiana: «Nel catechismo mi fu insegnato che con il Battesimo si diventa figli di Dio. Ora papa Francesco dice che siamo tutti figli di Dio. Chi ha ragione?». Nella risposta ho invitato ad imparare l’uso l’“analogia” (prospettiva ritenuta dal Barth dialettico “invenzione dell’Anticristo”), per interpretare correttamente espressioni come quella della nostra figliolanza rispetto a Dio. Rispondevo al lettore richiamando il fatto che c’è un essere figli che viene dall’essere creati, per cui Dio è padre di tutti, perché da lui noi tutti siamo stati creati. Questa verità era già affermata sia in ambito pagano, dove per esempio leggiamo che «Zeus è padre degli uomini e degli dei», sia in quello ebraico, dove Dio considera e tratta il suo popolo come un padre i suoi figli. Con la venuta del Figlio siamo chiamati a diventare figli in Lui, quindi, tramite la grazia, a incorporarci nella Chiesa, che è la comunità dei figli di Dio, non in senso esclusivo, ma inclusivo. Questa appartenenza non deve suscitare in noi sentimenti di superiorità o di disprezzo verso coloro che non hanno ricevuto il Battesimo, ma portarci a riscoprire la nostra e la loro natura creaturale e a vivere nella solidarietà con tutto il genere umano, della cui unità la Chiesa è segno. La domanda comunque è complessa e quella che può sembrare un’arzigogolata risposta teologica, altro non è che un cercare di far riflettere andando oltre le banalizzazioni giornalistiche, e rispondendo all’appello verso la “fatica del concetto”, di cui non possiamo mai fare a meno.
In ogni caso, come sostiene il noto vaticanista Marco Politi, «Il Dio di Francesco è così. Trascende la Chiesa, scavalca le barriere dottrinali, per lui Dio si manifesta in tutti gli uomini, oltre ogni barriera identitaria». E la domanda di cui dobbiamo farci carico diventa: ma si tratta del Dio di Francesco o del Dio di Gesù Cristo? E, per riprendere la tematica del rapporto secolarizzazione/religione: quale immagine di Dio esprime meglio la trascendenza del totalmente Altro, quella che esclude o quella che include, accoglie e quindi ama incondizionatamente tutti?
F: Quello al quale allude Lorizio è un dibattito (in buona misura interno al cattolicesimo) che, in fondo, continua a contrapporre, per dir così, la concentrazione “su Dio” e l’interesse per il “mondo”: se il punto fosse questo, la risposta di Lorizio, che nella sostanza potrebbe anche essere declinata “alla protestante”, chiuderebbe il discorso. Quello che però io intendo dire è che la concentrazione della chiesa sulla Parola è anche condizione per una sua presenza significativa nel secolare.
Faccio un esempio semplice: si parla spesso dell’impegno ecclesiale per la “salvaguardia del creato”. Qual è lo specifico della parola “creato” rispetto ad “ambiente” o “natura”? A mio parere, la risposta non si trova anzitutto nei libri di teologia della creazione, i quali pure, come si è detto prima, sono essenziali, bensì in una vita di preghiera e ascolto della parola biblica che a mio parere, in questo momento, abbiamo bisogno di incrementare.
Si potrebbe obiettare che, da parte dei teologi, vi sia la tendenza a rintracciare i “colpevoli” della confusione, o dell’allentamento dal religioso, negli “altri” fenomeni della nostra società: l’analfabetismo religioso; la secolarizzazione; la laicità che diventa laicismo; e poi lo scientismo, l’economia capitalistica di mercato, il comunismo col suo ateismo. Non si dovrebbe, invece, porre sul banco degli imputati (kantianamente – davanti al tribunale della ragione), la teologia stessa? In altre parole: non è che forse la teologia stessa è stata messa in fuori gioco dalla modernità?
L: La mia intenzione voleva essere autocritica, ossia mostrare l’incapacità della teologia più recente di alfabetizzare i credenti, ponendo questioni decisive per la vita delle comunità e la presenza nella polis. Se poi si pensa alla modernità in senso epocale, mai vi è stata tanta attenzione a tematiche teologiche come per esempio nella filosofia moderna, tuttavia quelle problematiche, che venivano affrontate e risolte nell’ambito accademico controllato dalle autorità ecclesiastiche, furono al contrario portate all’attenzione laica del mondo, con soluzioni difficilmente digeribili dalle chiese e dalle religioni istituzionali, penso a Spinoza. È invece la postmodernità che mette del tutto fuori gioco il sapere teologico, in quanto propone forme di religiosità e spiritualità che escludono la ragione e il pensiero e si esprimono esclusivamente in modalità emozionali. Si tratta di quella che Olivier Roy chiama la «santa ignoranza delle religioni senza cultura», che determina la fine della teologia e la crisi delle chiese culturalmente impegnate.
F: Non ho nulla da aggiungere. Osservo solo, rispetto alla domanda, che il tribunale di fronte al quale la teologia risponde è anzitutto quello di Dio, con buona pace anche di Kant.
In una società come la nostra, o potremmo dire “le nostre” (europee), parlare di “ritorno del sacro”, o “ritorno delle religioni” è ormai buona prassi per chi studia i fenomeni religiosi. E questo, semplicemente, perché sociologicamente il dato di un ritorno del religioso, in varie forme, è evidente. Da qui, però, a parlare di teologia (cristiana in questo caso) pubblica, o politica… e di laicità “non neutrale”… ci sembra un’operazione quanto meno “azzardata” – e forse un po’ nostalgica («erano tempi belli, splendidi, quando l’Europa era un paese cristiano», diceva Novalis). Nasce il sospetto che questo tipo di proposte esprimano in realtà un disagio: il disagio delle chiese e delle teologie che si sentono tagliare l’erba sotto i piedi. È così? E, se no, perché?
L: Mi auguro che se di nostalgia debba trattarsi si possa coltivare quella del “totalmente Altro” (M. Horkheimer), che non ha nulla a che fare né con forme di religiosità di tipo neopagano-sacrale, che tendono ad immanentizzare il divino e a naturalizzarlo, né con visioni di cristianità, che identificano fede e cultura, proponendo improbabili visioni fondamentaliste e teocratiche. In questo senso laicità come appartenenza per me significa sentirsi parte di una cultura, una società, una chiesa, per testimoniare nel mondo il Cristo e la sua Parola, interpellando la libertà di chi non condivide non solo la stessa fede, bensì anche le stesse opinioni.
F: A mio parere, la buona teologia, politica o anche no, si oppone alla melassa religiosa, anche cristiana, che in diversi vorrebbero ammannire. La difficoltà consiste precisamente nel fatto che pensare teologicamente, oggi, significa rifiutare le due vulgatae: del secolarismo selvaggio da una parte, e della «cafeteria religiosa» (Ingolf Dalferth, un teologo, appunto) dall’altra. Indubbiamente, in questa fase, si tratta di nuotare controcorrente. Prima di liquidare questo sforzo come velleitario, tuttavia, inviterei a riflettere sulle conseguenze liberticide e irrazionaliste che i due atteggiamenti che paiono dominanti finiscono per determinare. Quello teologico è, secondo me, un lavoro socialmente utile.
[pubblicato su Confronti 11/2019]
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