di Lorenzo Ferrari e Nicola Pedrazzi
L’ultima risoluzione sulla memoria approvata dal Parlamento europeo è un’occasione persa, piena di semplificazioni e omissioni – che però ci raccontano molto dello stato del progetto europeo a 30 anni dalla caduta del Muro. Come si è arrivati a questo vuoto documento anti-tutti-i-totalitarismi? La risposta va cercata a Est, nell’attenzione che la destra polacca dedica al tema della memoria.
Il 17 settembre la Polonia ha commemorato l’80° anniversario dell’invasione sovietica. Con un gesto simbolico, due giorni dopo il Parlamento di Strasburgo ha approvato la risoluzione 2019/2819(RSP) «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Invece di riconciliare il continente, il documento ha finito solo per dividere.
Due i problemi su cui s’è concentrata l’attenzione dei commentatori: l’opinabilità di asserzioni presentate come acclarate verità storiche e, a monte, l’opportunità che un’istituzione (in questo caso per giunta sovranazionale) adotti atti formali in tema di memoria. Anche quando severe, le analisi si sono limitate alla dimensione episodica e notiziabile del documento, senza inquadrare la vicenda nel più ampio contesto europeo. Soprattutto in Italia e soprattutto a sinistra, le critiche si sono concentrate sulla cosiddetta equiparazione tra comunismo e nazismo: un parallelo difficile da praticare in sede storica, e che senza dubbio viene proposto frettolosamente perché riflette molto bene le esigenze politiche dell’Unione allargata a Est. Viceversa, pochi si sono indignati per la pretesa di costruire memoria senza passare dallo studio della storia, nemmeno menzionato all’interno della strategia europea.
In sintesi, la risoluzione 2019/2819(RSP) è preoccupante per ragioni più profonde di quelle elencate all’indomani del voto in aula. Se si è giunti a un esito così inadeguato è perché sul processo di gestazione hanno agito metodi di lavoro, priorità strategiche, letture politiche e pattern cognitivi che negli ultimi anni sono divenuti tipici – questa è la nostra tesi – dell’Unione europea nel suo insieme. Ad allarmare non è quindi la bruttezza di un singolo atto, ma la fragilità della cultura politica che l’ha generato. Un modo debole e confuso di pensarsi europei, che non può contribuire all’Unione forte e democratica di cui avremmo bisogno.
- La premessa che manca: la storia non conosce conclusioni univoche
Ottant’anni fa, una duplice invasione militare condotta dalla Germania nazista (1° settembre 1939) e dall’Unione sovietica (17 settembre) cancellò la Polonia dalla carta geografica europea. In quel momento, le potenze guidate da Hitler e Stalin non erano avversarie sul campo: lo sarebbero divenute solo nell’estate del 1941, quando l’esercito del Reich non resistette alla tentazione di marciare su Mosca, finendo per far convergere gli interessi sovietici e anglo-americani. Com’è noto, per il nazismo fu l’inizio della fine.
Dal momento che la Seconda Guerra Mondiale si concluse con schieramenti diversi da quelli che l’avevano cominciata, che giudizio storico dovremmo dare, ad esempio, dell’Armata Rossa? Dobbiamo ricordarla (e raccontarla ai nostri bambini, perché questo è il punto) come l’esercito che, in accordo con Hitler, smembrò la Polonia nel 1939, o come la forza che liberò Auschwitz proprio nel giorno in cui commemoriamo le vittime della Shoah (27 gennaio 1945)? Scendendo di scala e italianizzando il dilemma, chi è stato («davvero», si dice in epoca grillina) Palmiro Togliatti? Un fedele cominternista, silenzioso testimone del terrore staliniano degli anni Trenta, oppure un padre costituente che condusse i comunisti italiani a prendere parte alla vita democratica della Repubblica?
Nei paesi in cui sono stati liberi di lavorare, gli storici si sono posti queste e altre domande. L’unica conclusione genuinamente europea che abbiamo tratto è che una risposta univoca non c’è – il che, s’intende, è ben diverso dal sostenere che qualsiasi interpretazione sia plausibile o ugualmente degna, o che una verità attestabile non esista e non meriti di essere ricercata. A un bambino di qualsivoglia paese europeo che ce lo chiedesse potremmo quindi rispondere così: l’Armata Rossa fu sia un’alleata del Terzo Reich, sia la liberatrice di Auschwitz. Potremmo inoltre suggerirgli l’idea che l’essere o non essere polacchi può avere un peso nella formazione di un’opinione al riguardo o nella valorizzazione di un aspetto sull’altro, e quindi che l’esperienza diretta dei fenomeni storici e i ricordi privati sono cosa diversa dalla metodologia storica (su cui sarebbe sano fondare la memoria pubblica).
Ecco il demerito strutturale della nostra risoluzione: non fondare il suo tentativo di alimentare una memoria europea su queste ammissioni fondamentali. La sequela di scorrettezze che il testo mette in fila sono quasi secondarie rispetto al peccato originale d’impianto.
- Non due, ma almeno sette punti irricevibili
In Italia la polemica si è concentrata su due scelte oggettivamente gravi: la sovrapposizione dei regimi di Hitler e Stalin «che volevano conquistare il mondo» (purtroppo in diversi punti la risoluzione sembra scritta da Alessandro Di Battista), e la promozione del patto Molotov-Ribbentropp tra Germania e Urss a causa unica della Seconda Guerra Mondiale. Le spie di un lettore attento però si accendono su una serie di altri problemi.
Primo. Nella frettolosa condanna di nazismo e comunismo insieme passano in secondo piano le esperienze – per nulla secondarie – dei regimi fascisti, conservatori o socialisti che hanno governato interi pezzi d’Europa ben oltre il 1945. Come si può pensare di creare una memoria europea condivisa ignorando la guerra civile spagnola e i suoi risultati, la dittatura portoghese, il regime dei colonnelli in Grecia, ma anche glissando sulla Yugoslavia di Tito? Ed è davvero possibile occuparsi di nazismo senza nemmeno menzionare il fascismo italiano, che al potere lo precede di un decennio?
Secondo. Con una nonchalance disarmante, la risoluzione utilizza in modo intercambiabile termini precisi e pesanti come «totalitarismo», «autoritarismo», «nazismo», «stalinismo», «comunismo». Non è una noiosa questione terminologica: è una questione di sostanza, che rivela la superficialità o le cattive intenzioni dei suoi redattori. Siamo dinanzi a un testo che afferma di voler fondare una memoria di scala continentale e che per farlo si accontenta di creare il vago e infantile contenitore delle «cose brutte da non ripetere». Dentro a quel barattolo vengono chiuse le parole più controverse del Novecento, senza alcuna cura di distinguerne o anche solo rispettarne i significati.
Terzo. Specie quando approvate a larghissima maggioranza, le risoluzioni del Parlamento europeo dovrebbero garantire che quante più persone possibile possano identificarvisi. L’immaginario sotteso a questa risoluzione è invece in gran parte riconducibile a un paese solo: la Polonia. Al punto 11 la risoluzione chiede di rendere l’anniversario dell’esecuzione del comandante Witold Pilecki «Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo». Chi è costui? Una figura luminosa – partigiano e reduce di Auschwitz, dopo la guerra Pilecki contrastò il regime comunista imposto da Stalin –, ma su cui il governo populista di Varsavia sta costruendo una rilettura funzionale al proprio pantheon nazionalista. Insomma, per proclamare una giornata universale il Parlamento europeo è andato a infilarsi in dibattiti interni alla storiografia e alla politica polacca.
Quarto. Il documento è pervaso da un forte, fortissimo sentimento anti-russo. Al punto 15 la risoluzione invita «la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato»; al punto 16 il Parlamento si dichiara «profondamente preoccupato per gli sforzi dell’attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico», e sottolinea che «considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica». Il documento si chiude addirittura con una «richiesta di trasmissione alla Duma». A trent’anni dalla caduta del Muro ha senso risuscitare dinamiche e retoriche da Guerra Fredda? Il contributo russo alla sconfitta del nazismo può essere espunto da un documento sulla memoria europea? È su un sentire «contro» che vogliamo fondare la nostra Unione?
Quinto. Diversi passaggi non sono comprensibili nemmeno al lettore più motivato.Con riferimento ai crimini perpetrati «dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista», al punto 5 la risoluzione «invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi». Che cosa significa? Quali principi? Pur di non auspicare valutazioni fondate «sul metodo storico» il Parlamento si lancia in perifrasi prive di senso. Stessa cosa avviene al punto 10, dove si chiede «l’affermazione di una cultura della memoria condivisa che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani». Ci sono tutte le parole di moda, da «resilienza» a «giovani». Ma proviamo a chiederci che cosa concretamente sia una cultura della memoria condivisa. Va bene che «cultura», «memoria» e «condivisione» sono tre parole cui è universalmente attribuito un significato positivo, ma basta affiancarle per conferire un senso a quello che si sta dicendo?
Sesto. Al punto 18 la risoluzione «osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari». Anche qui, il contesto di riferimento è l’Est Europa, ma generalizzando il particolare si rischia il cortocircuito. Negli ultimi anni la Commissione europea ha censito i luoghi di memoria dei paesi membri, al fine di registrarne le «difformità». Ma con gli occhiali del mercato unico è difficile capire – facciamo un esempio nostrano – che cosa rappresenti per i bolognesi «via Stalingrado»: certo non l’esaltazione di un regime totalitario, ma il lascito di una toponomastica post-bellica e resistenziale, cui molti cittadini rimangono attaccati. Decine di esempi urbanistici e una letteratura consolidata dimostrano come la contestualizzazione aiuti la memoria più della demolizione – basti pensare all’enorme lavoro fatto su Berlino.
Settimo. La risoluzione tace sull’unica vera sfida che gli stati membri condividono dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: il parziale ma progressivo superamento dello stato nazione, in un quadro di pace. Questo silenzio è molto grave, innanzitutto perché viene dall’istituzione più federale dell’Unione, e poi perché a livello strategico il racconto dell’Europa come esperimento storico post-nazionale è quanto di più innovativo, unificante e veritiero gli europei abbiano a disposizione per non cedere alle sirene del nazionalismo. Senza questa memoria cosa rimane della cittadinanza europea?
- Le origini del testo (di lungo periodo)
Ma non fermiamoci al testo, vediamo come nasce. La risoluzione vede 57 firmatari: 22 polacchi, perlopiù di destra, e 22 europarlamentari provenienti dal resto dell’Europa centro-orientale, più una manciata di altri deputati (un solo italiano, Antonio Tajani, già commissario e Presidente dell’europarlamento). È una risoluzione che cerca di dare risposta alla domanda di presenza politica dei paesi entrati nell’Unione con il grande allargamento del 2004, e alla loro (legittima) volontà di aggiungere nuove prospettive alla memoria ufficiale dell’Unione europea.
Il testo deriva da un’inconsueta fusione tra le bozze elaborate dai gruppi parlamentari dei popolari, dei liberali, dei socialisti e dei conservatori. Questi hanno cercato di fondere i loro stralci in un’unica versione, che hanno poi presentato assieme per consentirne una rapida approvazione ad amplissima maggioranza (il dibattito sulla memoria non era certo il punto principale nell’agenda di quella sessione plenaria). Il documento messo ai voti è un autentico copia-e-incolla di pezzi estrapolati dalla bozza dell’uno e dell’altro, limati dai loro passaggi più estremi: i segni del frettoloso confezionamento del testo indicano una volta di più quanto poco lavoro di vero dibattito, riflessione, maturazione ci sia stato.
Analizzando le bozze preparatorie si riesce facilmente a identificare la paternità nazionale e politica dei vari paragrafi della risoluzione. Il lavoro di taglio e cucito è stato in buona parte gestito dai popolari dell’Europa centro-orientale e dalla destra polacca del partito Diritto e Giustizia, dalla farina del cui sacco esce l’impianto della risoluzione. Gli apporti selezionati dai testi dei socialisti e dei liberali sono invece perlopiù esornativi ed entrano poco nella costruzione della memoria vera e propria. È dai conservatori polacchi e dell’Europa centro-orientale che arrivano l’esplicita critica alla Russia, l’auspicio di maggiore visibilità per i crimini dello stalinismo, la condanna dei simboli del comunismo nello spazio pubblico, la glorificazione di Witold Pilecki.
Ora, la modalità con cui il testo è stato messo a punto può spiegare le sue incongruenze e tutte le superficialità indegne di un documento che si pretende solenne. Ma non devono indurci a concludere che si tratti di una risoluzione improvvisata. Senza valersi di passaggi in commissione e in piena estate, i gruppi parlamentari appena formatisi dopo le elezioni di maggio sono riusciti a predisporre in tempi rapidi una bozza congiunta proprio perché hanno potuto rifarsi a una narrazione consolidata, che anno dopo anno ha preso piede all’interno delle istituzioni europee. Se andiamo a vedere, troviamo che in realtà non c’è nulla di nuovo nell’equiparazione tra nazismo e comunismo, nell’esaltazione della commemorazione a scapito dello studio storico e delle memorie plurali, nell’ombra in cui vengono lasciate le esperienze delle dittature dell’Europa meridionale. Pure l’istituzione del 23 agosto come «Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari» venne decisa già nel 2009.
A questo processo hanno partecipato convintamente anche la Commissione europea e il Consiglio, sempre su spinta dei governi dell’Europa centro-orientale. La relazione della Commissione del 2010 «La memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa» è tra i principali punti di partenza del tentativo di proporre un’unica memoria europea dei totalitarismi. Prima che per i contenuti, quel documento fa impressione per la sua forma: se trattasse di salvaguardia delle popolazioni di sardine nel Mediterraneo sarebbe stato redatto nella stessa maniera. Una decisione quadro, un’audizione pubblica, un rapporto di un esperto, e l’immancabile questionario sottoposto agli stati membri: il tutto come sempre porta la Commissione a mettere a disposizione i suoi programmi per finanziare un certo numero di progetti. Lungi da noi suggerire l’idea che tutta la progettazione europea in tema di memoria sia un esercizio inutile, solo colpisce constatare come all’esecutivo europeo si possa dare in pasto qualsiasi ordine di questione, confidando sul fatto che la sua meccanica lo digerirà sempre nello stesso modo. Constatiamo che questa «mentalità processuale» si riverbera negativamente su tutte le istituzioni, Parlamento incluso.
- Gli scopi del testo (di corto respiro)
Compreso che la risoluzione origina non soltanto dalla fretta di una stesura monopolizzata dalle destre polacche ma dalla narrazione di se stessa che l’Unione ha gradualmente consolidato a partire dal grande allargamento, la domanda che ne consegue è: perché il Parlamento ha votato a stragrande maggioranza un documento del genere? Dov’erano gli europeisti? Perché nell’unica istituzione direttamente elettiva il dissenso è stato così basso?
È probabile che, come avviene per tanti documenti dal dichiarato intento conciliatorio (che si presume non facciano male a nessuno), molti deputati non avessero letto con attenzione il testo. Altri europeisti hanno però consapevolmente votato a favore della risoluzione, sostenendo che fosse necessario pagare un dazio storico a un nobile fine politico: forgiare una «memoria» in grado di accompagnare la cittadinanza europea.
Al netto delle buone intenzioni dei singoli deputati, il successo ampio di una risoluzione tanto di parte si deve al fatto che il primo obiettivo di questa iniziativa, l’unico veramente condiviso, non era la definizione di una memoria europea, ma la canalizzazione dei nazionalismi risorgenti a Est su un nemico comune all’Est e all’Ovest, trovato all’occorrenza nella Russia di Putin. Chi ha votato questa risoluzione ha avvallato l’idea che valga la pena provare a europeizzare il sentimento antirusso diffuso negli ex satelliti sovietici. Più che a una lettura storica, la sovrapposizione del totalitarismo nero a quello rosso risponde a una preoccupazione politica momentanea, laddove gli stati membri non riescono a rinvenire comuni denominatori più solidi e a spiegare in modo più convincente le ragioni del loro stare insieme. La debolezza di questo ragionamento dovrebbe preoccuparci più di ogni altra considerazione.
In buona sostanza, questa strana risoluzione discussa solamente ex post non pretende davvero di interpretare i desideri di riconciliazione dei popoli europei, ma cerca di addomesticare le posizioni centrifughe di alcuni governi dell’Est Europa integrando le loro riletture del passato nella narrazione delle istituzioni europee. Una strategia avulsa dai tanto sbandierati valori europei, e che per giunta manca di efficacia. Tanto perché si sappia, le elezioni polacche tenutesi a meno di un mese dall’approvazione della risoluzione hanno consegnato una nuova, robusta, maggioranza ai conservatori nazionalisti di Jaroslaw Kaczynski. Su impulso del suo partito, già durante la scorsa legislatura il Parlamento polacco aveva approvato una serie di misure allarmanti per il loro carattere illiberale; tra queste una norma che prevedeva fino a tre anni di carcere per chiunque definisca «polacchi» i campi di sterminio nazisti presenti in Polonia durante la Seconda guerra mondiale – veementi proteste internazionali costrinsero il Parlamento polacco a mitigare la pena, ma la ratio del provvedimento non è stata toccata. Proprio su queste basi programmatiche Diritto e Giustizia ha raccolto il 45% dei consensi alle europee di maggio (inviando a Bruxelles 26 eurodeputati), e alle politiche del 13 ottobre, con un’affluenza di venti punti più alta, ha mantenuto il 44%. Se in Polonia la tendenza è questa, accodarsi non sembra il modo migliore per invertirla.
In conclusione
Un corpo politico quale il Parlamento europeo – un’assemblea eletta dal demos europeo – potrebbe esprimersi con legittimità piena sul tema della memoria europea, ma dovrebbe esserne all’altezza e agire con tutto l’impegno e la serietà richieste da un’operazione così ambiziosa. Prima ancora che per quello che afferma, la risoluzione del 19 settembre è disonesta nelle sue omissioni, perché non ha il coraggio di nominare la diversità dei vissuti nazionali che pretende di armonizzare né di indicare nella pluralità delle ricerche storiche a confronto una concreta possibilità di riconciliazione europea. Nascondendo la fatica e il tempo che l’epocale operazione culturale promessa dal titolo richiederebbe, la risoluzione perde credibilità già in partenza.
Molti degli europarlamentari che hanno votato a favore l’hanno fatto fidandosi della condanna dei totalitarismi, dell’inclusione dell’esperienza dolorosa della metà orientale dell’Unione, dell’appeal di un’espressione come «cultura della memoria condivisa». Ma di fatto si è lasciato scrivere la politica della memoria europea alla destra polacca, che evidentemente è tra i pochi soggetti a investirvi capitale politico. Così facendo, gli europarlamentari hanno finito per sottoscrivere una lettura della storia parziale e nazionalista – e la risoluzione renderà più difficile allontanarsene nel momento in cui si dovesse lavorare a una memoria europea più aperta e consapevole.
Moltiplicando le giornate della memoria e forzando in un’unica e definitiva «cornice della memoria europea» vissuti non ricomponibili l’Unione continuerà a sbattere su un impossibile concettuale: una memoria senza storia, un finto ecumenismo dove nulla è vero perché tutto diventa simile. È certamente urgente il bisogno di prestare ascolto, con sensibilità umana e intelligenza politica, ai traumi collettivi dei paesi dell’Est. Ma per rispondere a questa esigenza le istituzioni europee non sono chiamate ad affermare un’unica, uniformante lettura della storia, bensì a creare uno spazio funzionale a una ricerca indipendente e transfrontaliera, che sappia emanciparsi da prospettive strettamente nazionali. L’orrido slogan messo in circolo dai documenti della Commissione va rivoltato come un calzino: da «il tuo passato è il nostro passato» a «il tuo passato è diverso dal mio, e per questo mi interessa».