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Chi ascolta la voce della luna?

by Goffredo Fofi

di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.

L’immagine che si da oggigiorno di Federico Fellini è molto diversa da quella che fu la sua persona, soprattutto verso la fine della sua carriera. Sofferente, per motivi personali e professionali ma certamente uno dei più grandi “artigiani” del cinema non solo italiano.

Ho avuto la fortuna, nella mia attività mai “ufficiale” di critico cinematografico, di conoscere o frequentare molti registi e perfino di lavorare con alcuni di loro (Pasolini, Bellocchio). Non solo italiani. I miei due registi prediletti sono stati, sin dalla giovane età, Luis Buñuel – di cui ho curato per Einaudi la pubblicazione delle sceneggiature, consultandomi a Parigi con lui – e Fritz Lang – che intervistai insieme a due amici della rivista francese Positif su cui allora scrivevo, quando al festival di Venezia si tenne un grande convegno su cinema e espressionismo. Della loro arte potrei parlare all’infinito o quasi… L’incontro con Buñuel fu indimenticabile, e ho spesso ricordato che, nell’alberghetto di fronte al cimitero di Montparnasse in cui era abituato a scendere venendo dalla Spagna o dal Messico, mi chiese se, essendo io italiano, fossi anche cattolico. Io: «No, ma ho servito messo fino a dodici anni!» E lui, per verificare o per divertirsi, attaccò a recitare il Confiteor, in latino come si usava un tempo, come lo si recitava nella messa, una battuta il prete e una i chierichetti. Io: «Confiteor Deo omnipotenti»; lui: «Beatam Mariam sempre Virginem», e via avanti fin quasi alla fine, quando egli scoppiò a ridere dicendo che una cosa come questa i comuni amici di Positif, post-surrealisti e mangia-preti, non avrebbero mai potuto capirla!

Con gli italiani i rapporti furono complicati, dal mio sessantottismo un po’ ottuso, che li avrebbe voluti tutti rivoluzionari. I due che frequentai più assiduamente furono Bellocchio e Ferreri, negli anni in cui si sperava di cambiare il mondo e anche il cinema! Ma dalla loro idea del cinema, coerente nel primo e meno coerente nel secondo, finii per allontanarmi.

Il regista con cui forse ho litigato più spesso fu Pasolini – ma era bello litigare con dei grandi come lui; oggi con chi potrei litigare? Quelli di cui finii invece per diventare amico furono Mario Monicelli, Carmelo Bene e Federico Fellini.

Con i primi due i rapporti furono splendidi, e posso davvero dire di aver goduto della loro amicizia. Erano persone diversissime tra loro. Il primo, che ci teneva a dirsi più artigiano che “autore”, come voleva la retorica del tempo, era un ironico e autoironico regista e sceneggiatore di film anche immensamente popolari (I soliti ignoti, Brancalone, Amici miei, i film con Totò!). Il secondo è stato uno dei rari geni che il nostro paese ha avuto nel corso del ‘900 (credo di averne conosciuti solo due degni di questa collocazione e l’altro è Elsa Morante, di cui dirò in futuro), ma più in teatro che in cinema, di cui peraltro sconfisse la grammatica abituale inserendosi d’autorità nel numero dei grandi delle nouvelles vagues, teatrali e altre.

Fellini fu anche lui un genio? Non so dirlo, e lo inserisco storicamente a cavallo tra i grandissimi “artigiani” alla Monicelli (o alla John Ford!)
ricordando come anche lui venisse dalle sceneggiature di film molto popolari, tra i pochi a saper ricorrere alle “arti basse” dello spettacolo – circo e avanspettacolo, fumettisti e umoristi – ma da subito, come regista, imponendo un suo stile, una sua lingua, una sua visione.

Da Lo sceicco bianco a La voce della luna gli dobbiamo capolavori che, nel loro insieme, sono anche il vero e massimo trattato di antropologia che il nostro popolo, la moderna “civiltà italica” abbia avuto, e meritato nel bene e nel male. Fino a quella lunghissima sequenza finale del suo ultimo film, quella della “sagra dello gnocco” in cui ha magistralmente riassunto quel che il nostro paese stava diventando, che ha finito per diventare. Sono stato davvero amico di Fellini solo dopo quel film (fu lui a cercarmi, per quel che ne avevo scritto nella generale freddezza della critica…) e devo dire che l’ultimo Fellini era una persona molto diversa dall’immagine che di lui si tende tuttora a darne. Era una persona sofferente, con una moglie malata terminale; un regista che non trovava più produttori disposti a finanziare i suoi film. Era molto malinconico, incontrarlo e ascoltarlo, ed era impossibile non soffrire con lui del mutamento dei tempi, del mutamento del paese, del mutamento del cinema.

Fu, con Kubrick, l’ultimo grande artista della storia del cinema, un’arte del ‘900, la più popolare e grandiosa di quel secolo che il 2000 ha aggredito e stravolto con i suoi internet, i suoi dvd, i suoi orrendi Netflix.

Il mondo cambia, e nessuno più ascolta “la voce della luna”. Ed è un mondo anch’esso “terminale”, dove l’arte è stata respinta agli estremi confini dalla cosiddetta comunicazione.


[pubblicato su 
Confronti 12/2019]

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Photo: © Doriano Strologo

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