di Samuele Pigoni. Direttore di start-up per una Fondazione in via di costituzione. Si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.
«In ogni stagione, e a qualunque ora del giorno e della notte, è sempre stata mia cura migliorare quanto più potessi l’attimo in cui mi trovavo a vivere, e fermarlo per vivere nel punto d’incontro di due eternità, il passato e il futuro, vale a dire nel presente, e attenermi fedelmente a esso».
Henry David Thoreau sarebbe d’accordo nel rubricare tra le cose necessarie, ma veramente difficili, da imparare nella vita quella di saper stare fermi. Senza stare fermo Henry non sarebbe entrato nella “fioritura del momento presente” che in due anni di isolamento nei boschi ha saputo come pochi altri vivere, osservare e raccontare. Tirarsi fuori anche solo per pochi attimi dal movimento incessante del corpo e della mente, dai nostri affari e affanni, non è facile perché in fondo noi siamo movimento. In questo preciso istante, mentre scrivo, il mio corpo si muove in continua interazione e scambio tra esterno e interno e se mi potessi vedere per quello che sono davvero probabilmente sfumerebbe il confine tra me e il mondo, non ci sarebbe proprio un bel nulla di fermo, e nello specchio che c’è là in fondo alla stanza vedrei solo fasci luminosi presi nella danza infinita degli atomi. Ce lo ricorda anche Seneca: «I nostri corpi vengono trascinati come le acque di un fiume dovunque tu guardi, tutto scorre nel tempo. Nessuna delle cose che noi abbiamo davanti sta ferma: io stesso sono mutato nell’istante in cui dico che esse mutano. Questo intende Eraclito quando afferma che “noi entriamo due volte nello stesso fiume e non entriamo”» (Seneca, Lettere morali a Lucilio VI 6,23).
È proprio la coscienza di questo movimento incessante alla radice di ogni cosa e dentro di noi che rende la condizione umana irrisolta e sempre alla ricerca di qualcosa fuori di sé nel quale cercare (senza trovare) compimento.
Eppure ognuno di noi, al pari di questa spinta al movimento, sente che in qualche modo è altrettanto reale la possibilità di stare fermi, una specie di promessa che è insieme una nostalgia: in qualche modo, da qualche parte, la possibilità di tirare il fiato e stare fermi, c’è.
La psicologia buddhista parla di “mente scimmia”: abbiamo nella testa un animale forte e irriverente che salta in continuazione da un posto all’altro senza curarsi di stare lì, dove le si chiede di stare. La scimmia è disobbediente, ma con un po’ di volontà, pazienza e allenamento – ci viene detto da più parti – è ammaestrabile.
Il verbo latino stare deriva dal termine sanscrito sthā che significa: stare fermo, stare, rimanere, esistere, essere presente; come aggettivo indica qualcosa che sta, che sta fermo, situato. Sthā dà origine al sostantivo āsthāna che significa posto, base, terra, e al termine sthāna che designa l’atto di stare fermo, in posizione, condizione, grado, luogo, regione (pensiamo ad “Afghanistan”, cioè il luogo o la regione dove “stanno” gli afghani e Uzbekistan, Kazakistan, Tukmenistan, etc.).
Nella radice di stare c’è dunque l’idea di prendere una postura che sia casa, che permetta di abitare un luogo saldo, proprio, fermo, come ferme – che stanno là immobili e noncuranti – sono le stelle del firmamento in quelle notti d’estate e di estasi che si imprimono nella nostra memoria nel modo più dolce che c’è. La vita nei boschi di Thoreau la possiamo dunque trovare anche qui e ora ogni volta che nel corso della giornata ci capita di decidere di fermarci, sederci e immedesimarci nel semplice momento presente. Anche solo per pochi secondi possiamo allenare, ovunque siamo, la possibilità di tornare un attimo al luogo fermo che è la casa del presente, fatta semplicemente di noi, di quello che siamo in quell’istante, con le nostre sensazioni, emozioni o pensieri.
Fermarsi quindi è possibile e porta con sé il dono di interrompere la pretesa di volere e potere sempre cambiare le cose per come sono, di voler produrre qualcosa di diverso da quanto questo momento porta con sé.
Stare fermi è la nostra casa, quella nella quale non cerchiamo nulla, ma troviamo tutto. Lo dice bene Jon Kabat Zinn: «Questo è il vantaggio di fermarsi. Non si tratta di un atteggiamento passivo e quando deciderete di riprendere sarà una partenza diversa, poiché vi siete fermati. La pausa contribuisce a rendere più vivaci, ricche e articolate le azioni successive, aiuta a inquadrare nella giusta prospettiva tutte le preoccupazioni e insicurezze. Serve da guida». (Dovunque tu vada, ci sei già, Corbaccio, 2017).
[pubblicato su Confronti 12/2019]
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Photo: “Thoreau’s quote near his cabin site, Walden Pond”
©Flickr/eflon