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Essere rifugiati in Libano. Le storie dei Corridoi umanitari

by Michele Lipori
Michele Lipori

Michele Lipori

Redazione Confronti

Marzia Coronati

Marzia Coronati

Giornalista, Rai Radio3

In un contesto, come è quello del Libano oggi, fatto di tensioni manifeste e latenti, si intrecciano le vite dei profughi siriani che – dopo essere sfuggiti agli orrori della guerra – vivono in un limbo dal quale è difficilissimo emanciparsi. Alcuni di loro, grazie ai Corridoi umanitari, avranno la possibilità di iniziare un nuovo percorso di vita.

Lo scorso novembre una delegazione di Confronti si è recata in Libano allo scopo di seguire 113 profughi siriani che – grazie ai Corridoi umanitari del programma Mediterranean hope (Mh) promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio, in accordo con i ministeri dell’Interno e degli Esteri – sono giunti nel nostro Paese per iniziare un nuovo percorso di vita.
Una sorta di “viaggio a ritroso” per vedere quali siano le condizioni in cui vivono queste persone che, dopo essere sfuggite dalla guerra in Siria, si ritrovano in un limbo dal quale solo con molti sforzi e difficoltà ci si può liberare.

I numeri parlano di una situazione sempre più precaria e potenzialmente esplosiva. Il Libano, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), ospita il maggior numero di rifugiati siriani pro capite. Il Governo del Paese stima che i rifugiati siriani siano circa un milione e mezzo su un totale di poco più di 4 milioni e mezzo di abitanti con cittadinanza libanese. A questi, vanno aggiunti anche i circa 18.500 rifugiati provenienti da Etiopia, Iraq, Sudan e altri paesi, ma anche i circa 200.000 rifugiati palestinesi che dal 1948 vivono nel Paese sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa).


L’ultimo censimento della popolazione libanese è stato fatto nel 1932 da cui risultò – fra i vari gruppi etnici e confessionali presenti nel Paese – una leggere maggioranza della popolazione cristiana maronita. Quando il Libano dichiarò l’indipendenza dalla Francia – era il 1943 – venne annunciato un accordo non scritto, il Patto nazionale, che distribuiva le varie sfere d’influenza secondo un sistema multi-confessionale per il quale: il Presidente della Repubblica sarà sempre un maronita; il Primo ministro sarà sempre un sunnita; il Presidente dell’Assemblea nazionale sarà sempre uno sciita; il vice Presidente del Parlamento sarà sempre un greco ortodosso; i componenti dell’Assemblea nazionale saranno ripartiti secondo una proporzione di 6/5 in favore dei cristiani rispetto ai musulmani; il Capo di Stato maggiore della Difesa sarà sempre un cristiano maronita e il Capo di Stato maggiore dell’esercito sarà riservata a un druso.

Se per qualche tempo questo sistema – sebbene basato su delle proporzioni non più attuali anche quando “ufficiali” – sembrò funzionare, tanto da far definire il Paese dei cedri come la “Svizzera del Medio Oriente”, l’“idillio” si è interrotto bruscamente nel 1975 allo scoppio della Guerra civile, combattuta in gran parte seguendo le linee etniche-confessionali.

Nel 1989, a guerra finita, l’Accordo di Ta’if riassestò l’equilibrio in Parlamento fra la popolazione maronita e musulmana, riducendo il potere del Presidente della Repubblica e aumentando quelli del Primo ministro.

Data l’importanza che ha il dato demografico sul sistema politico del Paese, in Libano sono molte le restrizioni della concessione della cittadinanza. Innanzitutto bisogna considerare che in Libano vige lo ius sanguinis, ovvero l’acquisizione della cittadinanza per il fatto della nascita da un genitore (in questo caso, il padre) o con un ascendente in possesso della cittadinanza.

Storicamente, i rifugiati armeni e assiri che sono arrivati nel Paese nel 1915 dalla Turchia come conseguenza delle persecuzioni, hanno ottenuto la cittadinanza libanese. Non è stato riservato lo stesso trattamento ai profughi palestinesi che sono dislocati in vari campi disseminati in tutto il Libano. Nella maggioranza dei casi, infatti, i palestinesi non hanno cittadinanza né, di conseguenza, documenti d’identità libanesi. Inoltre, è fatto loro divieto di possedere proprietà e non possono esercitare professioni prestigiose poiché non è loro permessa l’iscrizione agli albi professionali.

Come se non bastasse, recentemente il premier Saad Hariri ha lanciato una campagna contro i lavoratori palestinesi e siriani, accusati – vox populi – di “rubare” il lavoro ai libanesi.

L’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottato nel 1984 dall’Assemblea generale dell’Onu e di cui anche il Libano è firmatario recita: «Nessuno Stato espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Paese qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura».

Ciononostante, come più volte denunciato da Amnesty international e altre Ong presenti in loco, queste misure sono spesso disattese e le deportazioni forzate dei siriani che transitano sul territorio libanese sono in costante aumento, come anche gli sfratti e la distruzione di case e campi profughi informali (che spesso vengono costruiti su terreni privati e per i quali i profughi siriani corrispondono un compenso in denaro al proprietario).

Come se non bastasse, dato che nella maggioranza dei casi ai siriani in Libano non viene riconosciuto lo status di rifugiati, diventa molto difficile – se non impossibile – trovare un lavoro legalmente riconosciuto, il che determina facilmente che queste persone entrino in un circolo vizioso fatto di sfruttamento e privazione di ogni diritto. Inoltre, senza il riconoscimento di tale status di rifugiato, le persone non hanno libertà di movimento, né diritto all’istruzione o accesso al sistema sanitario (che, peraltro, in Libano è largamente privatizzato).

I Corridoi umanitari di Fcei, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio si inscrivono in questo mosaico già di per sé complesso a cui si aggiungono le proteste innescatesi lo scorso ottobre in seguito ad una crisi economica sempre crescente e all’annuncio da parte del Governo di misure di austerity e di nuove tasse (vedi scheda al fondo).

Nell’ottica di dare una lecita risposta a una tragedia insostenibile la Fcei ha firmato un protocollo di intesa con il Governo italiano e i ministeri dell’Interno e degli Esteri, che si impegnano a rilasciare un certo numero di documenti per la richiesta di asilo.

Le associazioni che lavorano con i profughi in loco segnalano agli operatori di Mh una lista di persone vulnerabili e la Fcei organizza loro un viaggio sicuro, su un normale aereo di linea, e un’accoglienza in Italia, promossa da strutture apposite disseminate in tutto il paese, dove ci sono persone che li accompagneranno nel primo difficile periodo e li indirizzeranno verso percorsi di formazione e lavoro in base a competenze, titolo di studi, necessità, aspirazioni.

Quando siamo stati a Beirut, le manifestazioni pacifiche e partecipate di piazza si erano in parte sgonfiate, ma di notte il quartiere centrale ha assistito ad alcuni scontri violenti tra esponenti dei due movimenti sciiti Hezbollah e Amal e manifestanti anti-governativi, sedati in parte dall’intervento dell’esercito. A Tripoli, città a nord della capitale, continuavano invece i cortei colorati, con famiglie, nonni e bambini per le strade a sventolare la bandiera nazionale. L’assenza di un Governo ha però peggiorato la situazione già critica, la luce elettrica salta sempre più spesso e per periodi più lunghi, molte scuole sono chiuse, il traffico e lo smog – già elevatissimi in una nazione in cui non esistono mezzi di trasporto pubblici di nessun tipo – sono arrivati a un livello critico. In questa situazione, che sta sconvolgendo una nazione già in ginocchio da anni, la presenza siriana è vista come la causa di ogni male.

Per cinque giorni abbiamo seguito gli operatori di Mh nel loro lavoro, stavano ultimando i preparativi per la partenza del prossimo corridoio, previsto per il 27 novembre: 113 persone, tra famiglie con bambini e giovani donne e uomini single.

Li abbiamo accompagnati mentre sbrigavano le pratiche finali: spiegare come impacchettare le loro cose, quanto devono pesare le valigie, come raggiungere l’aeroporto. I 113 hanno saputo solo 24 ore prima di partire le loro destinazioni: Osama raggiungerà la compagna a Pinerolo, dove i figli stanno frequentando le scuole, Bushra andrà a Padova, dove potrà continuare a formarsi come grafica, Souad, la mamma non vedente e i due figli andranno nelle Marche, un luogo sicuro dopo oltre otto anni di tribolazioni. Erano tutti molto emozionati, ma soprattutto impazienti di lasciare la loro attuale situazione.

Maha, Mohammed e i suoi tre bambini vivevano in una periferia di Beirut, in due stanze dove il marito nel tempo ha costruito un bagno e un angolo cottura, sono scappati dai bombardamenti due anni fa. Maha durante la fuga si è rotta malamente una gamba, il marito l’ha trasportata in braccio per chilometri sino al confine libanese, inizialmente hanno trovato alloggio nel campo profughi di Sabra e Shatila. Qui i bambini hanno subito numerose violenze e la loro situazione psicologica e fisica si aggravava sempre più, alla fine hanno trovato questa doppia stanza nella capitale, dove li abbiamo incontrati. Durante la visita abbiamo chiesto ai bambini se erano contenti di prendere un aereo, «Per me da bambina era una allegria vedere gli aerei passare, per loro elicotteri e aerei significano bombe», ha detto la mamma.

Il loro alloggio era in un palazzo fatiscente che era una ex scuola, ovviamente pagavano un affitto salato a un proprietario, così come tutti i profughi siriani che abbiamo incontrato.
Osama per esempio pagava cento dollari al mese per vivere nel terrazzo di una palazzina poco fuori Beirut, il proprietario ha costruito dei loculi con delle assi di legno che affitta a quindici persone; nel suo, Osama ha sistemato un materasso e una vecchia televisione.

Souad l’abbiamo incontrata in un campo profughi a Tel Abbas, nel nord del Libano, ai confini con la Siria, viveva con la vecchia madre e i due figli in una tenda da ormai sei anni, in questo lasso di tempo ha visto morire di crepacuore il marito e ha provato a crescere al meglio i bambini trovandosi lavoretti saltuari e mal pagati.

Il 27 novembre è arrivato il momento tanto atteso. La trafila per la partenza è iniziata alle sette di sera, in una palestra messa a disposizione dai carmelitani ad Hamzieh, periferia di Beirut. Nel parcheggio, sotto al canestro del campo da basket, le famiglie hanno iniziato ad accatastare i loro bagagli: trolley giganti e zainetti da bambino. All’interno, in una sala spaziosa, gli operatori hanno ripetuto per l’ultima volta cosa sarebbe accaduto nelle ore successive e lanciato le ultime raccomandazioni: «all’aeroporto è bene rimanere compatti e non perdere la calma se la polizia farà qualche domanda strana, è necessario prepararsi a una lunga attesa che potrà essere stancante soprattutto per i più piccoli».

Le famiglie hanno ascoltato concentrate e silenziose, nei loro vestiti migliori; Osama, il ragazzo che abbiamo incontrato sul tetto dove ha vissuto per più di un anno, aveva una bella giacca di lino turchese, il giorno prima l’avevamo vista appesa nel suo loculo di due metri per uno, sistemata sotto un telo di plastica.

Nel tragitto sino all’aeroporto c’è un’atmosfera sospesa, c’è chi guarda fuori dal finestrino le insegne illuminate e chi sfoglia gli ultimi selfie sul telefono, alle nove e mezzo siamo all’aeroporto, il volo partirà alle quattro di notte ma il tempo è appena sufficiente per sbrigare tutte le pratiche; i bagagli e i documenti sono meticolosamente controllati più volte, da più poliziotti, qualche bambino si addormenta su un trolley, qualcun altro nel cestino del carrello porta bagagli, tutti seguono le regole di un copione studiato più volte insieme agli operatori. Alle sette siamo a Fiumicino, scendiamo dalle scale dell’aereo alzandoci i baveri nell’aria umida del primo mattino, la mamma di Souad si sistema sul capo la copertina Alitalia, e così, con gli occhi cisposi e la testa ovattata, facciamo ingresso nell’aeroporto, ci aspettano piccoli mazzi di fiori e un buffet di mandorle, popcorn, patatine e succhi di frutta, un piccolo diversivo alla nuova lunga attesa che dovranno affrontare per registrare le impronte digitali, consegnare il loro passaporto e ricevere un documento per la richiesta di asilo.

Guardiamo la valigia di Souad. Mentre ci serviva il tè nella sua tenda dignitosamente pulita e ordinata, a Tel Abbas, ha chiesto agli operatori se poteva portare con sé una pietra nera, l’unica cosa che le rimaneva del villaggio siriano in cui è nata.

Ci ritorna in mente un libro di Anthony Shadid, un giornalista libanese morto in Siria nel 2012. Shadid, cresciuto in America, racconta di quando decide di tornare in Libano per rimettere in piedi la casa del nonno. «Gli imperi cadono. Le nazioni crollano. I confini possono essere cancellati e spostati. Antichi vincoli di fedeltà possono dissolversi o modificarsi. La casa è l’identità che non sbiadisce», scrive Shadid. Ci sembra che Souad, con quella pietra nera in mano, voleva dirci la stessa cosa.

LE PROTESTE GIORNO PER GIORNO

18 ottobre – L’annuncio di nuove tasse decise dal Governo (fra cui quelle sull’uso di Whatsapp e di altri mezzi di comunicazione via Internet poi revocate) scatena la piazze in Libano. L’agenzia libanese Nna riferisce che gli scontri tra manifestanti e polizia (a Beirut e in altre regioni del Libano) hanno provocato, più o meno direttamente, due morti e oltre 60 feriti. Lo slogan in piazza è: “Il popolo vuole la caduta del sistema”.
19 ottobre – Migliaia di persone continuano a riversarsi nelle strade e nelle piazze di Beirut e delle altre città del Libano per protestare contro il carovita e la corruzione. La capitale è paralizzata dai manifestanti che hanno interrotto la circolazione.
21 ottobre – Le scuole, le università, le banche e diverse istituzioni locali e centrali sono rimaste chiuse in attesa di una risposta da parte del Governo e del premier Saad Hariri di cui i manifestanti chiedono le dimissioni. Da parte sua, il premier annuncia un piano di riforme “senza precedenti”, dicendosi solidale – in un discorso in diretta tv – con le decine di migliaia di manifestanti in piazza da giorni. Ciononostante, i manifestanti non cedono e continuano a chiedere le dimissioni del premier e, dunque, del Governo.
22 ottobre – Centinaia di giovani con le insegne dei due partiti sciiti – Amal e Hezbollah, presenti nel governo – hanno tentato di raggiungere Piazza dei martiri a Beirut per unirsi ai manifestanti, ma sono stati bloccati dall’esercito. Hezbollah e Amal hanno smentito di essere legati in alcun modo a questa iniziativa. I manifestanti convergono di fronte la sede della Banca centrale, tacciata di essere uno dei “motori” del sistema clientelare a cui ci si sta opponendo.
23 ottobre – Per la prima volta, dall’inizio delle proteste, l’esercito interviene con la forza per riaprire le principali strade bloccate dai manifestanti. Nel frattempo, i vertici delle varie denominazioni cristiane del Libano si schierano in favore delle proteste pacifiche. In un comunicato del Patriarcato maronita di Bkerke, dove si sono riuniti i membri del Consiglio dei patriarchi cattolici e ortodossi del Libano, si invita il presidente della Repubblica maronita Michel Aoun, ad «assumere le necessarie decisioni riguardo alle richieste della gente».
24 ottobre – In un discorso pubblico alla tv, il presidente Michel Aoun ha affermato che la soluzione all’impasse in cui è il Libano si può trovare nell’applicazione del “pacchetto di riforme economiche” proposte dal Governo. «Il sistema – ha dichiarato Aoun – non si cambia dal giorno alla notte. Il sistema è paralizzato e va rinnovato. E questo può essere fatto soltanto nel quadro delle istituzioni previste dalla Costituzione». I manifestanti in piazza respingono con forza il discorso di Aoun.
25 ottobre – In un discorso pubblico all tv, Hasan Nasrallah – leader di Hezbollah – rivolge un appello ai manifestanti affermando: «Il vuoto istituzionale porta al caos e non si esclude che possa esserci la guerra civile». Nei giorni precedenti anche Hezbollah era finito nel mirino dei manifestanti, in quanto il “Partito di Dio” è ritenuto essere parte del “sistema” da abbattere.
29 ottobre – Persone afferenti ai partiti di Hezbollah e Amal hanno attaccato manifestanti e attivisti nei pressi di Piazza dei martiri a Beirut, epicentro delle proteste popolari. Le forze dell’ordine e l’esercito sono intervenute in difesa dei manifestanti. Il premier libanese Saad Hariri si dimette.
30 ottobre – Dopo due settimane di proteste e atti di disobbedienza civile e all’indomani delle dimissioni del premier, l’esercito libanese ha imposto ai manifestanti e attivisti la riapertura delle principali strade del paese, bloccate di fatto dal 17 ottobre.
5 novembre – Nel sobborgo di Zouk Mosbeh a Beirut, alcuni manifestanti hanno rifiutato di liberare le strade bloccate venendo allontanati con la forza e arrestati.
6 novembre – Questa la dichiarazione a mezzo Twitter del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo: «Gli iracheni e i libanesi vogliono riappropriarsi dei propri paesi. Stanno scoprendo che il prodotto maggiormente esportato dal regime iraniano è la corruzione, malamente mascherato da rivoluzione. Iraq e Libano meritano di liberarsi dall’ingerenza di Khamenei».
7 novembre – Migliaia di studenti libanesi hanno partecipato a Beirut e Tripoli a manifestazioni anti-governative nel quadro della mobilitazione popolare in corso da metà ottobre. Anche se le scuole hanno ripreso le loro attività dopo due settimane di chiusura, sono numerosi gli studenti scesi in strada. Dopo la riapertura delle strade, ora le proteste si concentrano sul blocco degli accessi a sedi istituzionali.
15 novembre – I leader politico-confessionali del Paese si sono accordati per la nomina di Muhammad Safadi (75 anni, sunnita di Tripoli) come nuovo premier dopo le dimissioni di Saad Hariri. Nel frattempo, dopo le banche e le scuole, anche numerosi ospedali privati iniziano uno sciopero per protestare contro i rischi che corre il settore sanitario e ospedaliero nel contesto della grave crisi in corso nel Paese.
19 novembre – Nabih Berri – presidente del Parlamento – è stato costretto a rinviare a data da destinarsi la sessione parlamentare prevista, convocata a discutere la controversa proposta di legge per l’amnistia nei confronti di una serie di reati fiscali e finanziari. Il rinvio è stato determinato dal mancata raggiungimento del quorum dei deputati, molti dei quali impossibilitati a recarsi in Parlamento dai blocchi dei manifestanti. Le banche hanno iniziato ad applicare “misure straordinarie” per contenere la fuga dei capitali all’estero.
22 novembre – Migliaia di persone sono tornate in piazza a Beirut e nelle altre principali città del paese nel giorno dell’indipendenza nazionale. I leader politico-confessionali si sono riuniti in un compound fortificato, fuori Beirut, per assistere a una parata militare “simbolica”.
25 novembre – Scontri nella notte a Beirut tra esponenti dei due movimenti sciiti Hezbollah e Amal e manifestanti antigovernativi. Si contano circa 10 feriti.
27 novembre – Scontri nella notte a Tripoli tra esercito e militanti del Partito nazionalista sociale siriano (alleato di Hezbollah e del governo siriano).
3 dicembre – I manifestanti si radunano in tutto il paese in risposta alla nomina dell’uomo d’affari Samir Khatib come possibile nuovo Primo ministro.
8 dicembre – Samir Khatib si ritira come candidato alla carica di Primo ministro per non aver ottenuto in Parlamento abbastanza sostegno dai partiti musulmani sunniti. Con il ritiro di Khatib, Saad Hariri è tornato a essere l’unico candidato come Primo ministro. I manifestanti si sono quindi riuniti fuori dal parlamento per protestare contro la cadidatura di Hariri e chiedere un candidato indipendente.

Photos: © Michele Lipori
[pubblicato su Confronti 01/2020]
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