di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
Recenti fatti di cronaca fanno emergere il pregiudizio antiebraico, mai sopito, di certe frange politiche e “culturali”. Pensare a questi casi come isolati sarebbe un grande errore. Al contrario, analfabetismo religioso e disinformazione diffusa sono due elementi da prendere in considerazione se si vogliono trovare delle strategie educative efficaci a scuola e altrove.
Un consigliere comunale di Trieste, ormai circonfuso da dubbia fama, nel corso di un dibattito sulla concessione della cittadinanza onoraria a Liliana Segre ha argomentato come segue: poiché la senatrice a vita ha dichiarato che Gesù era ebreo, lui si è sentito offeso in quanto “profondamente cattolico”; la conclusione, a suo modo impagabile nel contenuto e nella formulazione, è stata: «Per me [Gesù] era Dio e allora mi astengo».
Certo, l’idea che Gesù non fosse ebreo bensì “ariano” non è nuova: il fatto, però, che essa fosse radicata in ambienti cristonazistoidi, o nazisti e basta, avrebbe potuto indurre gli ingenui a ritenerla liquidata. E invece no.
Di per sé, l’episodio non meriterebbe alcun dibattito, bensì soltanto il cestino della spazzatura: uno dei tanti nauseabondi prodotti dell’imperante bullismo politico-mediatico.
Come uomo di scuola e di chiesa, mi pongo tuttavia una domandina: che tipo di formazione culturale e catechistica può aver ricevuto un soggetto di estrazione cristiana (e, francamente, il fatto che egli si dica cattolico mentre io sono protestante mi consola assai poco) che si esprime in tal modo?
O, per porla in termini un poco più drastici: siamo sicuri che l’affermazione «Gesù era ebreo» sia considerata ovvia nelle comunità cristiane e nell’opinione pubblica di un paese come l’Italia? Lo è, naturalmente, per chi disponga di un’informazione biblico-esegetica minimale: ma tale informazione “passa” nella quotidianità scolastica e nella catechesi di base? Ho i miei dubbi.
Per quanto riguarda la scuola si è verificata una obiettiva convergenza tra le tradizioni laiciste da un lato e la Chiesa cattolica, con il suo accanimento nella difesa dell’insegnamento confessionale della religione, dall’altro: le conoscenze bibliche e storicoreligiose criticamente fondate sono state escluse dai curricula didattici e i tentativi in senso contrario meritoriamente intrapresi da associazioni non confessionali come Biblia sono rimasti senza esito.
La vecchia manfrina laicista, a volte appoggiata anche da chi avrebbe avuto buone ragioni per non farlo, sosteneva che la storia religiosa andasse insegnata nell’ambito di quella “generale”. Ma con quali competenze da parte degli insegnanti? Quanti di loro hanno sostenuto esami universitari, ad esempio, sulla formazione delle Scritture di Israele o sulla storia della chiesa primitiva? Per tacere, naturalmente, delle tradizioni religiose diverse da quella ebraico-cristiana.
Nell’ambito catechetico, le cose non sono andate molto meglio. Il problema non sembra risiedere anzitutto nel ritardo (peraltro facilmente riscontrabile) dei programmi catechistici rispetto alle attuali conoscenze esegetiche: per sapere che Gesù fosse ebreo non è necessario aver letto l’ultimo commentario.
È che spesso la dimensione informativa e culturale finisce, per ragioni anche comprensibili, ma con effetti in ultima analisi nefasti, per restare ai margini del progetto catechetico (laddove, si capisce, si riesce ancora a metterne in piedi uno).
Immaginare, con i chiari di luna che conosciamo, mirabolanti aperture del sistema scolastico alla cultura storico-religiosa mi sembra irrealistico. Paradossalmente, considero più promettente l’impegno catechistico delle chiese: qui, volendo, si possono raggiungere risultati certo modesti ma, dato il livello di partenza, comunque fortemente innovativi.
Per quanto riguarda l’ebraismo, ad esempio, lavori tesi all’individuazione
e all’eliminazione dai testi catechistici di resti di pregiudizio antiebraico o di elementi di disinformazione sono stati svolti da tempo e attendono solo di essere integrati nel lavoro di base; lo stesso andrebbe fatto per le diverse confessioni cristiane e per le religioni mondiali. Non c’è dialogo senza conoscenza – come amava ripetere Hans Küng.
Naturalmente si tratta di porre piccole isole di consapevolezza nell’oceano dell’analfabetismo e dell’insensibilità; l’audience delle chiese, inoltre, è notoriamente in costante diminuzione. Da qualche parte, tuttavia, bisogna pur cominciare. Il consigliere comunale di Trieste è un campione di ignoranza altamente rimarchevole, ma non isolato, il che significa che il compito che si apre è immenso.
[pubblicato su Confronti 01/2020]
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