di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Sebbene l’Italia abbia diverse “capitali” della cultura, è Napoli ad aver vissuto una vitalità sia sociale che culturale formidabile negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.
Ci sono in Italia due città-capitali, diversissime tra loro, e che non smettono di proporre novità, vitalità, contraddizioni attive. Sono (in ordine alfabetico) Milano e Napoli.
Roma è una sorta di cassonetto dove ci si può infilare di tutto, ma di seconda mano, incapace da decenni di produrre una cultura propria. Continua a raccogliere, più di Milano e di Bologna, forze giovani pronte a farsi triturare da quei meccanismi della cooptazione para-politica che a Roma si chiamano “salotti”. È stata, ma non è da tanto neanche più quello, la culla di una grande cinematografia nelle stagioni del neorealismo e del miracolo economico.
Ci sono il parlamento e i ministeri, ovvio, ma anche la tv vi conta sempre di meno. E peraltro, tradizionalmente, ha assorbito forze intellettuali che venivano da altrove; quanti sono gli scrittori o registi importanti nati e cresciuti a Roma?
Dei primi mi vengono in mente, dopo il grande Belli, solo Cardarelli, Morante, Moravia; gli altri sono tutti immigrati, da Pirandello a Soldati, da Pasolini a Brancati, eccetera.
Ma è di Napoli che voglio parlare, e della grande stagione culturale vissuta da questa città negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, quelli che ho passato in quella città scoprendovi una vitalità sia sociale che culturale formidabile, e sulla quale, purtroppo, mi sembra che non esista nessun consuntivo, nessuna riflessione e perfino nessuna rivendicazione…
Nei primi mesi del 1972, stanco della decadenza e delle lotte intestine nel “movimento” della città in cui vivevo e operavo, Milano, decisi di passare a
Napoli per molti anni pigliandovi casa e residenza, anche se era al Nord che mi guadagnavo, una settimana al mese, il poco pane da masticare poi a Sud. Vi ero attratto da un ‘68 ancora vivo e legato ai disoccupati e al cosiddetto sottoproletariato, un ‘68 che durò ancora a lungo proprio per quello che veniva considerato un “ritardo” dai gruppi nordici generalmente “operaisti”.
I militanti del Centro di coordinamento campano lo chiamavano “proletariato marginale”, vedendolo tuttavia inserito nei meccanismi dell’economia maggiore. Il Ccc era il gruppo ideato da Fabrizia Ramondino, divenuta più tardi una grande scrittrice, dal torinese Giovanni Mottura (di vocazione valdese) e dal calabrese Enrico Pugliese, allievi alla Facoltà di sociologia rurale di Portici dove insegnava Manlio Rossi Doria.
Fui tra i fondatori, allora, di un’iniziativa legata in parte a Lotta continua e in parte a gruppi di cattolici del dissenso, la Mensa bambini proletari, che dava da mangiare ogni giorno a bambini del quartiere Montesanto, tra i cento e i duecento, ché a Napoli il benessere toccava solo certi strati privilegiati e non gli abitanti dei vicoli del centro e delle periferie. Una prima lotta che organizzammo fu quella contro l’aumento del prezzo del pane, e ci trovammo da subito coinvolti nella brutta storia dell’epidemia di colera. Curai allora per Feltrinelli un libro di testimonianze con lo pseudonimo di Gennaro Esposito!
Mi ritrovai insomma inserito dentro un contesto di strabordante vitalità e creatività, sul piano sociale come su quello delle arti. Ricordo in particolare, nel “sociale”, il Gridas di Secondigliano, che si occupava magnificamente di bambini, il Centro di medicina sociale di Giugliano fondato da giovani psichiatri e volontari di ascendenze basagliane e foucaultiane, in linea con l’attività di Sergio Piro nell’ospedale psichiatrico del Furlone, eccetera. Mentre gli operai delle fabbriche di Pomigliano e di Bagnoli erano in lotta, e proponevano una loro cultura, per esempio col gruppo nusicale degli Zezi all’Alfa di Pomigliano.
Sul fronte della cultura, era ancora vitalissimo il teatro di sceneggiata, il più popolare di tutti, ma era ancora vivo Eduardo al San Ferdinando, e Totò era morto da poco, e nella canzone regnava, con Roberto Murolo, il meraviglioso Sergio Bruni, che scriveva e cantava anche nuove e insolite canzoni di lotta che contrastavano alla base l’influenza dei Merola e dei Mauro “cantanti di mala”, e c’era Angela Luce e c’erano i giovani di un’emergente nuova stagione: Nino D’Angelo, Enzo Gragnaniello e Giulietta Sacco, ma c’erano anche la coltissima Nuova compagnia di canto popolare intorno a De Simone, e c’erano i nuovissimi Pino Daniele e gruppi influenzati dal jazz e/o dal rock come Napoli Centrale, l’effimera e bensì ricca esperienza degli Almamegretta, eccetera. In teatro, era di casa il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, e, morto precocemente Annibale Ruccello, c’erano le esperienze innovative di Libera Scena attorno a Gennaro Vitiello e del Teatro dei Mutamenti intorno a Antonio Neiwiller, e con l’esperienza di Teatri Uniti sorgevano tra Napoli e Caserta gli astri di Mario Martone e Toni Servillo (memorabile il capolavoro collettivo Rasoi), e dai vicoli sbucava Enzo Moscato, e dalla provincia arrivavano Santagata e Morganti, e da Marigliano Leo De Berardinis e Perla Peragallo…
Nella galleria di Lucio Amelio si incontravano giovani artisti italiani come Mimmo Paladino, Tatafiore, Longobardi, Clemente, Castellano, e l’illustratore Zevola e i fotografi Jodice, Biasiucci, Accetta. Ed erano di casa Warhol e Beuys, fedeli alla città, e a piazza Dante, intorno alla libreria di Tullio Pironti, era possibile incontrare Nanda Pivano, mentre altrove, non poi così isolato, il polacco-napoletano Gustaw Herling scriveva racconti e diari memorabili, mentre il misantropico Compagnone proponeva Città di mare con abitanti. La misteriosa Elena Ferrante aveva scritto un grande romanzo, L’amore molesto, portato in film da Martone, ma c’era anche il cinema di Antonio Capuano e di altri, e Lello Esposito riportava in vita le statuine di Pulcinella, poi dominanti il mercatino natalizio dei vicoli del centro.
Questa stagione portò al potere in municipio una sinistra non all’altezza di tanta novità, prima con Valenzi e poi con Bassolino. Sul suo finire, con qualche amico (De Matteis, Herling, gli architetti Daniela Lepore, scomparsa
di recente, e Francesco Ceci, e molti altri) , fondammo una rivista di cultura napoletana e meridionale che chiamammo Dove sta Zazà dal nome di una vecchia canzone. Zazà era per noi né più né meno che l’utopia a cui si stava allora dando vita, e che finì purtroppo come tutto finisce, con il ritorno a una grigia normalità che però, a Napoli, non si è mai affermata del tutto…
[pubblicato su Confronti 01/2020]
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