di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.
Gli spacciatori di certezze identitarie (in politica e altrove) sono sempre più popolari, e così i loro argomenti: per questo la nostra è l’epoca degli –ismi. Sintomo, questo, di chiusura mentale e culturale, in una società che non è mai stata così aperta. Ma come sarebbe il mondo se…
La fortuna della parola identità è relativamente recente. La sua diffusione di massa è in qualche modo il segno di una crisi: è probabilmente dalla fine degli anni ’60 che è giustappunto cominciata ad andare di moda l’espressione “crisi di identità”.
Ma è soprattutto nell’ultimo ventennio che si sono moltiplicati libri, saggi e articoli su questo tema: segno che, se prima era semplicemente un dato, col tempo è diventata un problema; se prima era una risposta, in qualche modo autoevidente, col tempo è diventata una domanda senza alcuna precisa risposta, e come tale spesso anche angosciante.
Di identità abbiamo tutti bisogno: individui e gruppi sociali. Ed è un concetto che presuppone una tensione costante tra individuazione («sono diverso dagli altri») e identificazione («sono come – e con – gli altri»): dunque in disequilibrio perenne e precario. Ma oggi questa caratteristica si è accentuata.
Se prima si poteva esprimere con la concretezza oggettivante del verbo avere («io ho un’identità»: segue definizione), oggi si dovrebbe esprimere con il verbo essere, e meglio ancora il verbo divenire. Ma, spesso, emerge come risposta a una messa in questione, a una minaccia, o presunta tale. Come nel caso delle identità reattive: quelle che nascono in risposta alle identità altrui (un facile esempio: quelli che stanno riscoprendo di essere cristiani – a modo loro – da quando ci sono i musulmani…).
L’indebolimento dell’identità ne provoca la nostalgia. Ma al contempo siamo consapevoli di averne più di una – anche tra loro contraddittorie – e in larga misura possiamo scegliere quale ci piace indossare.
«Ogni utilizzazione della nozione di identità comincia da una critica di questa nozione», ha scritto Lévi-Strauss. Il concetto infatti è diventato sfuggente. Non corrisponde più a un qualcosa di monolitico, illusoriamente oggettivo. Si può costruire, cambiare, correggere. Tanto che qualcuno ha cominciato a dire che non è più un contenuto, ma un processo, un divenire: e che più che di identità dovremmo parlare di continui processi di identizzazione, di desocializzazione e di ri-socializzazione.
A seconda degli ambienti e delle persone che frequentiamo (che sono sempre di più, e sempre più in potenziale dissonanza cognitiva tra di loro), dei ruoli che rivestiamo (idem), e banalmente dei posti dove andiamo: che anch’essi, con l’aumentata mobilità (geografica, oltre che sociale), sono sempre di più. Ma non è facile vivere con questa consapevolezza. Per questo, più le nostre identità si pluralizzano di fatto, e più c’è una domanda di loro definizioni chiare, univoche e coerenti, anche se irrealistiche.
Gli spacciatori di certezze identitarie (in politica e altrove) sono dunque diventati popolari, e così i loro argomenti. Per questo la nostra è l’epoca degli -ismi: fondamentalismi, micro-nazionalismi, tribalismi metropolitani, localismi, razzismi. Sintomi di chiusura mentale e culturale, in una società che non è mai stata così aperta.
Le nostre biografie non sono più una ordinata successione di eventi, simili a quelli delle generazioni che ci hanno preceduto, ma una sequenza spesso più casuale che causale di accadimenti, di svolte, di novità (almeno apparenti) che in buona misura possiamo costruirci.
Le stesse nostre socialità di riferimento non sono più solo quelle date dal contesto familiare e territoriale di nascita, o dalla classe di appartenenza, ma sempre più socialità elettive, scelte, anche solo per brevi periodi, indossate e poi lasciate come un abito fuori moda.
E tocca a noi – ed è questa una delle principali fatiche cui siamo soggetti – costruire intorno a questi accadimenti un ordine narrativo, un filo rosso, una consequenzialità a posteriori: che metta ordine tra le nostre molteplici identità, componendole in un mosaico più o meno coerente.
Abbiamo più possibilità di scelta, ma il prezzo che paghiamo è che le nostre scelte sono più precarie, instabili, e anche incoerenti. Paradossalmente, è una buona notizia. Significa che siamo – e saremo sempre più – padroni della nostra vita, anche se spesso abbiamo la sensazione contraria. In fondo non è che non ci sia più l’identità: è che dobbiamo abituarci a usare la parola al plurale.
Un’opportunità più che una condanna. In ogni caso, una sfida.
[pubblicato su Confronti 01/2020]
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