di Paolo Naso. Docente di Scienza politica all’Università Sapienza di Roma, Coordinatore di Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei), Centro studi Confronti.
L’uccisione a Baghdad del generale Qasem Soleimani non è stata un incidente di percorso del Pentagono o della Cia ma il frutto di una precisa strategia che, più che alla geopolitica e al radicalismo islamico, guarda all’imminente futuro del presidente Donald Trump. La Casa Bianca ha provato a presentare l’attentato contro il capo supremo dell’esercito iraniano come il gesto necessario a fermare l’escalation nucleare e di sostegno al terrorismo islamista attuata dall’Iran degli ayatollah.
Il personaggio, già beatificato dal regime di Teheran, era certamente un personaggio di primo piano della strategia iraniana di espansione nell’area, sviluppatasi attraverso la dislocazione di uomini e mezzi in Siria e in Iraq e la costruzione di un legame politico con i palestinesi di Hamas. Soleimani, però, era anche l’uomo dell’ordine interno, quello che è sempre riuscito a reprimere i movimenti di opposizione in Iran. Non sappiamo se la sua morte a Baghdad sia da collegarsi con la mobilitazione di migliaia di giovani che, sfidando il Governo, chiedevano legalità, trasparenza e azioni concrete contro la corruzione endemica, ma l’ipotesi ha un suo fondamento.
L’uccisione di un “obiettivo mirato” non è certo una novità della politica internazionale e tantomeno di quella degli Stati Uniti. Eppure, l’eliminazione da parte americana di un carismatico tessitore di relazioni politico-militari come Soleimani appare allo stesso tempo “troppo” e “troppo poco”.
Troppo, perché il segnale partito da Washington – e così platealmente rivendicato dal presidente Trump – ha una drammatica valenza politica che delegittima ogni speranza di negoziato e di accordo con l’Iran. E non è cosa da poco, dal momento che nel 2018 lo stesso Trump si era limitato a denunciare l’accordo del 2015 che, come si ricorderà, sembrava chiudere ogni prospettiva alla crescita della potenza nucleare di Teheran.
Un passaggio così repentino dalla diplomazia a un atto di guerra non è senza conseguenze, e in breve il regime iraniano è tornato a riempire le piazze sotto la guida di vecchi ayatollah, la cui autorevolezza sembrava invece declinare di fronte alla crescita di una nuova classe dirigente, più giovane, più laica, decisamente riformista.
Crediamo che né Trump né l’Iran oggi puntino allo scontro militare diretto ma una ulteriore destabilizzazione dell’area è l’ultima cosa di cui, anche l’Europa, sente il bisogno. Pensiamo, ad esempio, agli effetti indotti dalle fughe di massa o al ricompattarsi di formazioni terroristiche, sconfitte sul piano militare ma rianimate da un nuova guerra santa contro il “Satana” americano.
Ma il gesto di Trump è, al tempo stesso, troppo poco. Se il piano della Casa Bianca è porre le premesse della pax americana nella regione che dalla Siria e dal Libano a Ovest arriva in Iran, a Est, lambendo l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo, l’eliminazione del generale iraniano è un segnale, ma non ancora una bandiera che segna una novità sostanziale negli assetti regionali. Il big stick – nella retorica conservatrice il “bastone” della politica americana – ha colpito di nuovo ma non si capisce bene che cosa ne abbia guadagnato, se non il ricompattarsi dei fronti antiamericani.
E allora? Benché noi europei tendiamo a pensare il contrario, Trump e i suoi consiglieri non sono degli sprovveduti e le ragioni dell’attentato a Soleimani vanno cercate più sul fronte interno che su quello internazionale. A breve il Presidente dovrà passare sotto le forche caudine del processo di impeachment e a novembre gli americani decideranno se tenersi The Donald ancora quattro anni o se, pentiti di una scelta così conservatrice e “impolitica”, tornare a un presidente democrat.
In questo frangente indossare la giubba militare e assumere la posa del Commander in chief è, per il Presidente che non sa che il Colorado non confina con il Messico (notizia del 24 ottobre 2019), una mossa tutt’altro che azzardata. E se nei prossimi mesi nessun elefante entrerà nella cristalleria del Vicino e del Medio Oriente, il calcolo politico potrebbe anche essere giusto.
[pubblicato su Confronti 02/2020]
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