di Goffredo Fofi. Scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Direttore della rivista Gli asini.
Il cinema è stato il mezzo di comunicazione più importante del XX secolo attraverso il quale autori come Luis Buñuel e Fritz Lang, Graham Greene e Alfred Hitchcock e Georges Simenon si sono confrontati con un pubblico non solo composto da “addetti ai lavori”, con la tematica del male perpetrato dagli uomini su altri uomini.
Ho fatto per molti anni il critico cinematografico e ho perfino scritto una voluminosa storia del cinema (insieme a due amici da tempo scomparsi, Morando Morandini e Gianni Volpi, per un editore che anche lui è da tempo scomparso, Livio Garzanti, che considero a ritroso più come una sorta di fratello maggiore che come un mio datore di lavoro). Mi è dunque capitato di conoscere molti registi, molti attori, molti sceneggiatori.
Il cineasta a cui mi sono affezionato di più è stato Mario Monicelli, alfiere di un cinema popolare di alto, di altissimo profilo ma, come ebbi a dire in un confronto pubblico con lui, che mi chiedeva perché in gioventù attaccassi troppo duramente certi “grandi” del cinema italiano, vedendolo tuttavia come un “padre” a cui credevo necessario ribellarmi, in nome di un cinema più esigente o semplicemente “altro”, ché (e citavo gli antropologi classici) la cultura si trasmette sempre da nonno o zio a nipote e non da padre e figlio (e oggi che non è più così è un disastro sia per i figli che per la società tutta…).
Mario mi chiese chi erano dunque i registi che consideravo come miei “zii” o “nonni” (o “fratelli”), e io feci dei nomi: come “zii” o “fratelli”, i grandi registi delle Nouvelles vagues mondiali degli anni Cinquanta e Sessanta, più vicini alla mia generazione per sensibilità e insoddisfazioni, per aspirazioni di rivolta anche politica; come “nonni” soprattutto due grandissimi nomi della storia del cinema, che per altro avevo avuto la grande fortuna di conoscere, Luis Buñuel e Fritz Lang, il primo anche per la libertà con cui reinventava il cinema da grande moralista.
Ma lui diceva “da entomologo”, da uno che studia i comportamenti umani così come un entomologo studia quelli degli insetti, ma di certo non freddamente come pretendeva di fare. Buñuel aveva un conto aperto con la religione (si veda – o riveda – La via lattea, riflessione visionaria e profonda sulla storia del messaggio cristiano), e così Lang, in modi certamente meno espliciti, più nascosti, più “nordici” e tedeschi…
Il tema dominante e ossessivo dei suoi film è stato infine quello della colpa, e diciamo pure del “peccato originale”, un tema che riuscì a far passare anche dentro i soggetti più banali del cinema hollywoodiano “di genere”, giallo o western. Tutti possono essere potenzialmente assassini, uomini lupi all’uomo, se solo ci si lascia trasportare dalle passioni e dagli istinti.
Questo tema mi colpì particolarmente, perché altri autori lo affrontavano, scrittori o registi, per esempio due che molto amavo, gli inglesi Graham Greene e Alfred Hitchcock e il belga Georges Simenon. Lang era un ebreo austriaco che al tempo della Repubblica di Weimar era diventato uno dei nomi più importanti della cinematografia mondiale, uno degli “inventori” del cinema, ma scoprii che non si vergognava di dichiararsi di origini e convinzioni cattoliche; Greene e Hitchcock erano inglesi che non esitavano a dichiararsi credenti e cattolici, il primo anzi convertito a un certo punto della vita; e Simenon non lo diceva a piena voce ma certamente i dilemmi che affrontava nei suoi romanzi erano anch’essi fortemente morali, ed era anche lui di origine esplicitamente cattolica.
Greene e Simenon sono stati tra i massimi narratori del Novecento e oggi nessuno osa più metterlo in discussione, come nessuno osa dubitare della grandezza di due registi tuttavia legati al “genere” come Lang e Hitchcock.
C’è un episodio fortemente significativo nell’esistenza di Hitchcock.
A guerra appena finita, il governo inglese gli chiese di visionare e montare i materiali documentari raccolti da operatori dell’esercito nei lager che via via venivano liberati e aperti, e si rese conto solo allora di cosa fosse capace l’uomo nei confronti dei suoi simili.
Il suo cinema cambiò allora, anche se pochi critici se ne accorsero, e acquistò la sua vera voce, la sua profondità e genialità. Scrittori e registi, i più bravi di tutti nel genere detto giallo o poliziesco o di suspense; autori che scrivevano per il grande pubblico internazionale, e come Buñuel (o il nostro Rossellini, che i registi delle Nouvelles vagues chiamavano il loro Socrate!); scrittori di inquieto e inquietante fondo religioso, l’interrogazione che li ha mossi nell’investigare la presenza del male nella storia individuale come in quella delle nazioni, nel raccontare, infine, i limiti dell’umano, ha avuto la particolarità di non voler parlare a pochi, e nemmeno ai lettori direttamente interessati alle problematiche religiose, ma a tutti, o almeno a quel tutti raggiungibile con il cinema, il mezzo di comunicazione più importante del XX secolo, di un’epoca di cui hanno visto e vissuto gli orrori: la guerra di Spagna per Buñuel, il nazismo per Lang, la politica internazionale per Greene (che lavorò nello spionaggio) tra Guerra mondiale e Guerra fredda, e per Hitchcock il confronto, pur mediato, con Auschwitz.
[pubblicato su Confronti 02/2020]
Per acquistare il numero di febbraio clicca qui