di Luigi Sandri. Redazione Confronti
Moltissimi sono gli interrogativi – etici, filosofici, religiosi, culturali, antropologici, psicologici, politici, scientifici – che la pandemia in corso pone a tutti, senza distinzione di età, genere, censo, studi, carriere, conoscenze, capacità, ricchi e poveri, credenti e non credenti; qui limitiamo la nostra riflessione a qualche flash che riguarda il mondo cristiano.
Incombe, nella testa di alcuni ecclesiastici di varie Chiese, e di alcuni loro fedeli, una singolarissima idea che, ai tempi aspri del Coronavirus, ripropone, modernizzandola, la pratica medioevale della ordalìa. Secoli fa, ogni tanto avvenivano delle sfide, soprattutto di carattere teologico, tra quanti ritenevano essere nella “ortodossia”, e altri accusati di “eresia”: l’accusato di eresia, per sua impavida scelta, o i “custodi della verità” per eliminare il virus che insidiava la salvezza della Societas christiana, ricorrevano alla prova del fuoco, l’ordalia appunto. La persona incriminata doveva entrare, scalza, in un grande braciere ardente, e percorrerlo per alcuni metri: se ne usciva incolume, significava che Dio, con un miracolo, aveva confermato la verità delle sue affermazioni; se rimaneva bruciata, era la prova che l’Altissimo la ripudiava, e che essa era nell’errore.
Tanto per fare un esempio famoso, a Firenze seguaci ed avversari di Girolamo Savonarola volevano, ovviamente per opposte ragioni, ricorrere all’ordalia per stabilire se quel frate fosse “ortodosso” o tremendamente “eretico”. Ma non si accordarono sulla modalità concrete per attuare quella pratica crudele che, quindi, non avvenne. Niente paura: il frate fu arrestato, torturato, processato e condannato a morte: dopo essere stato degradato dallo stato clericale, il 23 maggio 1498 in piazza della Signoria fu impiccato e poi bruciato.
Ma torniamo all’oggi: alcuni ecclesiastici – vescovi, monaci – hanno una stranissima idea: essi ritengono che i Governi facciano bene, sì, a vietare gli assembramenti per contenere la diffusione dell’epidemia; ma, aggiungono, il convenire di fedeli in chiesa per partecipare alla Liturgia non è affatto un qualsiasi “assembramento” profano e laico: esso è una riunione di preghiera, una riunione-doc. Questi reverendi, dunque, sembrano non sapere che siamo di fronte ad un virus davvero “diabolico”: non solo infetta gente assembrata in un bar a discutere di sport (“Fermeranno il campionato di serie A?”, si domandano angosciati), o in un teatro a divertirsi, o al circo a vedere le tigri ammaestrate; infetta perfino la gente riunita in chiesa. Proprio un virus miscredente e assatanato!
Stiamo divagando? Niente affatto. Abbiamo letto, in Italia, commenti di eminentissimi cardinali e di monaci e religiosi famosi che sembrano in preda al fondamentalismo. Essi quasi lasciano intendere che è l’intenzione che conta: se una persona va al bar, certo sfida il Governo e sfida la natura; e si se becca il virus ben gli sta. Se invece essa va in una chiesa affollata a pregare, o a partecipare all’Eucaristia, il virus (che sia cattolico?) capisce la differenza… e non la infetta.
Cerchiamo forse l’ago nel pagliaio? Vediamo allora che cosa è accaduto in Grecia. Il 16 marzo il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa ellenica, presieduto dall’arcivescovo di Atene, Hieronymos, ha deciso di “adottare tutte le misure prese dallo Stato per affrontare la propagazione del virus”; e quindi, battesimi e matrimoni sono rinviati e, ai funerali, parteciperà solo la famiglia del defunto. E per le “Divine Liturgie” (le messe) domenicali? «Con un sentimento di responsabilità pastorale, il Santo Sinodo suggerisce una loro celebrazione abbreviata dalla domenica 22 marzo all’11 aprile». Ora, in Grecia, normalmente è abbastanza alta, soprattutto nelle campagne, la frequenza della gente ai riti: perché, dunque, una giusta severità su battesimi e matrimoni, e una certa «tolleranza» per le messe? La ragione implicita di tale scelta è che, per l’Ortodossia, l’Eucaristia è pegno di immortalità nella vita futura; e che l’Eucaristia – balsamo, medicina e conforto – ha sempre fatto del bene, e mai del male, a chi la riceve.
E così il corto circuito è completo: il problema, infatti, non è se l’Eucaristia, in sé, faccia bene o male (i cristiani sanno bene che ricevere il corpo e il sangue di Cristo è via di salvezza); il problema è che una persona, inconsapevole portatrice di virus, anche in chiesa può infettare la sua vicina; e quella in fila per ricevere l’Eucaristia, può avere il virus, e passarlo ad altre.
In pienissima buona fede, naturalmente, il Santo Sinodo ha modernizzato l’ordalia, quasi «obbligando» il Padre eterno a sospendere, in chiesa, le leggi della natura, e fare un miracolo. L’ipotesi di tali celebrazioni – che, a noi osservatori, sa di fondamentalismo e fanatismo – ha preoccupato soprattutto il premier greco, Kyriakos Mitsotakis, il quale a stretto giro di posta così ha commentato la dichiarazione della gerarchia ortodossa ellenica: «Per decisione del governo, le Liturgie in tutti i luoghi di culto, di qualsiasi religione e confessione, sono sospese. Le chiese resteranno aperte solo per la preghiera personale. La protezione della salute pubblica impone decisioni chiare». Sempre a proposito di messe domenicali, sorprende e dispiace che papa Francesco, nell’intervista a Repubblica del 18 marzo, eviti di incoraggiare, espressamente e con forza, i cattolici a non implorare messe, le domeniche, e comunque a non parteciparvi. Stante l’epidemia in corso, infatti, chi ha fede forte, e ama il prossimo, sa bene che rimanere a casa (e là, se vuole, pregare e meditare sulle Scritture) è la scelta più cristiana che possa fare. Una idea che molti parroci hanno compreso benissimo e, invitando i fedeli a stare a casa, anche la domenica, celebrano messa da soli, ma magari in collegamento streaming con i loro fedeli, o via telefono, e tenendo vicino all’altare decine e decine di foto dei loro parrocchiani, per sentirseli accanto come in una grande famiglia. Questi parroci davvero salvano l’essenza del Vangelo e dell’Eucaristia. Non invocano miracoli, non sfidano Iddio. Fanno capire, plasticamente, che per i discepoli e le discepole di Gesù di Nazareh il rito ha senso solamente se e quando serva il prossimo, tanto più se fragile. E se non si può salvare e il rito e il prossimo, si salva solo quest’ultimo. Magari, tra tanto dolore, il coronavirus avesse insegnato questo alle Chiese!