di Fulvio Ferrario. Professore di Teologia sistematica e Decano della Facoltà valdese di teologia di Roma.
Era parso, in un primo tempo, che la reazione del mondo cristiano (in Italia essenzialmente cattolico) all’emergenza sanitaria fosse rapida e compatta: chiese chiuse, spazio alla telematica e flessibile creatività nelle situazioni che la richiedono. Che poi le dinamiche di incontro personale non siano semplicemente sostituibili con quelle elettroniche, appare ovvio: ma appunto, l’emergenza richiede adattamento. È anche importante che il nostro popolo, notoriamente costituito da santi, eroi, poeti e navigatori, ma occasionalmente anche da allenatori di calcio, economisti e climatologi, non si trasformasse in un popolo di virologi, nel quale ognuno dice la propria. Nell’emergenza estrema, chi ha la responsabilità di farlo decide, e non sono le chiese: queste ultime si adeguano. Se lo fanno nel modo giusto, possono trasformare anche questa semplice lealtà civile in una testimonianza.
Il 13 marzo, tuttavia, il pontefice romano ha ritenuto di dover notificare al paese che «le misure drastiche non sono sempre buone». Il contrario, in effetti, sarebbe assurdo, nessuna misura è «sempre buona». Se però l’opposto di quanto affermo è assurdo, ci sono buone probabilità che quello che dico sia assai generico. Nella situazione data, occorre stabilire quando una misura, drastica o meno, è buona e quando non lo è, ma non è una questione di fede.
Egli però si riferiva, anzitutto, ai “pastori”, che non dovono imitare don Abbondio, bensì stare accanto alla propria gente. Ancora una volta: si può solo essere d’accordo, ma la questione pastorale è come stare accanto alle persone in un momento piuttosto particolare. La risposta del Vicariato di Roma è stata immediata: apriamo le chiese, perché in esse le persone possano avvertire la presenza del Signore. Il papa stesso, domenica 15 marzo, si è recato a S. Maria Maggiore per «rivolgere una preghiera alla Vergine, Salus populi Romani, la cui icona è lì custodita» e poi a S. Marcello al Corso, dove si trova un “Crocifisso miracoloso” che nel 1522 era stato portato in processione per invocare la fine della peste (le espressioni tra virgolette sono riprese dal comunicato della Sala stampa vaticana). Dal punto di vista di un osservatore teologicamente ed ecumenicamente interessato, farei tre osservazioni.
Le chiese, tutte quante, sono unanimi nel cogliere nella preghiera la prima, fondamentale reazione specificamente cristiana alla crisi. Naturalmente non possono mancare la solidarietà attiva, la responsabilità, la generosità finanziaria: ma quello che solo la chiesa può fare è pregare. Parte dell’opinione pubblica reagisce con fastidio o forse anche con scandalo ed è normale che sia così. I cristiani e le cristiane credono in Dio e ciò significa, prima di ogni altra cosa, che pregano.
È interessante notare che il cattolicesimo romano, nell’ora della crisi e al suo più alto livello di autorità e rappresentatività, punta significativamente su forme di devozione popolare: nella chiesa aperta si trova uno spazio sacro dove incontrare il Santissimo Sacramento; poi la Vergine, poi quel particolare crocifisso. Una sensibilità evangelica sperimenta invece, quasi con sorpresa,che la concentrazione sulla parola di Dio non è solo una bandierina confessionale, bensì in effetti plasma una sensibilità. Non è che la persona protestante non avverta il carattere asettico (appunto!) e limitativo della comunicazione liturgica in forma telematica, però accetta serenamente tale limitazione. Sarebbe un errore, io credo, buttarla sul fatto che il cattolicesimo è più “corporeo”, mentre il protestantesimo sarebbe “etereo”. Siamo tutti “corporei” e “corporee”: ma comprendiamo in modo significativamente diverso la “corporeità” della parola di Dio.
Infine, il rapporto con l’autorità civile. Per la chiesa evangelica, il momento richiede la massima solidarietà con chi guida il paese; in tale prospettiva, la perla di saggezza papale del 13 marzo appare come minimo non necessaria. Dal punto di vista cattolico, il pastore dei pastori ha il dovere di richiamare i suoi, ma anche gli altri, al fatto che i musei possono chiudere, ma le chiese no, perché irradiano la presenza di Dio. Due modi diversi di comprendere la testimonianza nella sfera pubblica.