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“Cura l’Italia”. Ma pure i lavoratori?

by Gaetano De Monte

di Gaetano De Monte. Giornalista.

Coronavirus: lavoratori atipici, del commercio, della cultura e dello spettacolo, del turismo; operai precari, migranti e partite iva. Il Quinto Stato che sta pagando la crisi peggiore dal dopoguerra senza reddito, né tutele.

Quando intorno all’ora di pranzo del 16 marzo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la ministra  del Lavoro e delle Politiche Sociali, Nunzia Catalfo, e il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, si presentano nella sala stampa di Palazzo Chigi per illustrare il quattordicesimo provvedimento di urgenza emanato dal Governo in poco più di un mese in materia di “contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, stavolta, recante le «nuove misure a sostegno di famiglie, lavoratori e imprese per contrastare gli effetti dell’emergenza coronavirus sull’economia», era già nota alle parti sociali la sostanza del testo.

Una bozza del decreto circolata nei giorni precedenti, poi confermata nell’impianto dal testo approvato ieri in Consiglio dei Ministri, infatti, aveva già preannunciato la definizione delle aree sanitarie temporanee, con la possibilità per le regioni e le province autonome di «attivare anche in deroga ai requisiti autorizzativi e di accreditamento, aree sanitarie anche temporanee sia all’interno che all’esterno di strutture di ricovero, cura, accoglienza e assistenza, pubbliche e private, o di altri luoghi idonei, per la gestione dell’emergenza COVID-19, sino al termine dello stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020». Non soltanto. «Che le opere edilizie strettamente necessarie a rendere le strutture idonee all’accoglienza e alla assistenza possono essere eseguite in deroga al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, delle leggi regionali, dei piani regolatori e dei regolamenti edilizi locali».

Il decreto «Cura Italia», più in generale, prevede al titolo I tutta una serie di misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale, quali l’arruolamento temporaneo di medici e infermieri militari, incentivi alle imprese per la produzione e la fornitura di dispositivi medici, tra cui le mascherine chirurgiche, oltre che finanziamenti aggiuntivi in favore e per la permanenza  in servizio del personale sanitario. Fin qui prevede il decreto per l’aspetto sanitario, il più importante, senza dubbio, della gestione dell’emergenza coronavirus. Ma sono le misure a sostegno del lavoro e dell’economia, come è noto, il cuore del provvedimento.

Si va dall’introduzione di norme speciali in materia di trattamento ordinario di integrazione salariale, le quali prevedono per i datori di lavoro la possibilità di presentare domanda di concessione del trattamento con causale emergenza COVID-19 per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 per una durata massima di nove settimane e comunque entro il mese di agosto 2020,  al ripristino della cassa in deroga per tutti i lavoratori, anche in aziende che contano su un solo dipendente, attualmente non coperte da ammortizzatori sociali. Da una serie di altre misure fiscali a tutto vantaggio delle imprese come la sospensione dei termini per il pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria, a quelle di vantaggio per i lavoratori, come la sospensione dei termini di impugnazione dei licenziamenti, e le norme che prevedono l’istituzione del Fondo per il reddito di ultima istanza a favore dei lavoratori danneggiati dal virus COVID-19, misure per i trasporti  e il sostegno al turismo, in primo luogo.

È la cura Italia, nell’economia della guerra, come l’ha definita ieri il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno. È un decreto che tuttavia nel lungo periodo scontenta e spaventa molti. I commercianti romani, ad esempio, che lo scorso 6 marzo incontrando il Presidente del Consiglio avevano chiesto «più facilità all’accesso al credito per le piccole attività, anche con quote che possano andare a fondo perduto». Mi dice Stefano Monteferri, presidente dell’Associazione Commercianti di Via Appia Nuova: «Abbiamo chiesto al Governo l’abbattimento dell’aliquota dell’Iva sulle bollette delle utenze Luce, Gas, Acqua, Telefonia, la riduzione delle tasse Tari e Imu, la sospensione del pagamento per almeno 6 mesi dei contributi Inps delle aziende, con esclusione delle attività che stanno licenziando i dipendenti, con qualsiasi contratto». Spavento e scontento si registra fin all’inizio della crisi epidemica dall’Associazione dei free-lance. Acta ha presentato nei giorni scorsi i risultati di un sondaggio tra i suoi iscritti da cui è venuto fuori che più della metà di loro ha già perso almeno una commessa. Si tratta di formatori, ricercatori, consulenti, interpreti, traduttori, grafici, i cui lavori vengono di solito programmati con molto anticipo e che ora risentono enormemente non solo delle condizioni generali della manifattura mondiale, ma anche della mancata circolazione delle persone, in Italia e all’estero. Per questo l’Associazione che li rappresenta ha chiesto: «l’erogazione di una indennità mensile, di almeno tre mesi, sino alla fine del periodo emergenziale, per tutti i freelance che ne facciano richiesta, da restituire in fase di dichiarazione dei redditi nel caso in cui il reddito 2020 risultasse, al contrario, aumentato».                      Sono «i proletari del contagio» così li ha definiti la giornalista Floriana Bulfon. Costretti a restare a casa per rallentare il contagio da coronavirus ma senza un reddito che gli permette di sopravvivere. Per tutti loro, una campagna promossa inizialmente da Adl Cobas a cui hanno aderito, tra le altre, diverse realtà culturali del Paese, chiede che venga applicato il reddito di quarantena, sostenendo l’urgenza «dell’ampliamento dell’attuale reddito di cittadinanza che continua a escludere troppe figure, rendendo più ampio l’accesso alla domanda e dunque aumentando i beneficiari», si legge nell’appello. Perché «gli strumenti di protezione sociale ci sono e vanno utilizzati. Proprio a cominciare dall’estensione del Reddito di Cittadinanza», come ha riferito Cristiano Gori, docente di politica sociale all’Università di Trento che insieme al Forum delle disuguaglianze e diversità ha proposto «uno schema concettuale operativo per valutare e completare le proposte di contenimento degli effetti sociali ed economici della crisi all’attenzione del Parlamento e del paese. Uno schema ispirato al principio di una tutela universale per tutte le persone a misura delle persone».   

Di fronte ad un esercito di precari, al Quinto Stato che si amplia e ridefinisce il suo significato al tempo della grande epidemia, fino a comprendere operai precari e braccianti migranti. Non sappiamo se il virus ha risvegliato la lotta di classe, come qualcuno ha scritto. Quel che è certo è che in queste ore le lotte per il lavoro e per il reddito (per chi lo ha perso) si intrecciano con quelle per la salute (per chi è costretto a lavorare). A dirlo sono ad esempio le denunce raccolte dall’Unione Sindacale di Base (Usb) che ha raccolto le voci degli operatori sanitari di un ospedale romano, i quali hanno riferito di «aver ricevuto una fornitura di panni antipolvere riadattati con forbici ed elastici a mascherine di fortuna». Non soltanto. Ci sono poi i lavoratori che vengono dopo di tutti, quelli per cui non esiste nessun decreto. Sono i braccianti stranieri che lavorano e vivono nei pressi della piana di Gioia di Tauro. Qualche giorno fa il programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), Mediterranean hope, insieme alle associazioni Medici per i diritti umani (MEDU), Sanità di Frontiera e Csc Nuvola Rossa e Co.S.Mi. (comitato solidarietà migranti) realtà che forniscono assistenza sanitaria, legale e sociale alle persone che vivono presso gli insediamenti informali della Piana, aveva chiesto che «il problema del contenimento del contagio nei luoghi di vita dei braccianti venga affrontato dalle istituzioni con urgenza e con provvedimenti che possano garantire l’efficacia delle misure di quarantena». Ma per loro, come per altre categorie di lavoratori, per il momento, non è prevista nessuna cura.

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